Larentis, l’enologo stellato «Il Trentodoc va aiutato»
L’enologo Ruben Larentis, appena insignito del premio alla carriera, sulla nascita di nuove Maison «Le stesse cantine sociali potrebbero favorire i conferitori a sperimentare produzioni indipendenti»
TRENTO Da quella volta in cui, ancora ragazzino, sbagliò le quantità di solforosa nel vino che stava producendo con l’uva di suo padre, a oggi, Ruben Larentis, l’enologo e direttore tecnico di Cantine Ferrari, ne ha fatta di strada. Al punto che il più importante critico del mondo degli sparkling, Tom Stevenson, gli ha appena conferito a Londra il Premio alla carriera nel corso della cerimonia di «The champagne & sparkling wine world championships», il più prestigioso concorso mondiale dedicato alle bollicine.
Larentis, qual è il segreto di tutto questo successo?
«Penso che siamo riusciti a creare uno stile Ferrari che è ormai molto apprezzato, sia dalla critica sia dal mercato. Il Cswwc è davvero il più importante concorso mondiale per gli sparkling perché in gara ci sono vini delle aree geografiche di tutto il mondo e soprattutto partecipano tutti i più grandi nomi, dal Dom Perignon al Cristal. Essere accostati come cantina e con i nostri metodo classico ad aziende come queste, che hanno fatto la storia dello champagne, è già una vittoria».
A che punto è il Trentodoc oggi?
«Finalmente il Trentodoc inizia a essere una denominazione conosciuta, anche dai consumatori, ma il lavoro di comunicazione fatto fino a oggi deve proseguire. Oltre a questo, bisognerebbe che aumentasse il numero di produttori. Il Trentino ha una vocazione altissima per gli spumanti, la potenzialità c’è».
Come è possibile incentivare la nascita di nuove Maison di Trentodoc secondo lei?
«Ci sono tanti giovani, molto bravi, che vorrebbero iniziare un’ attività in proprio di questo tipo, ma ci vorrebbe una politica che aiutasse anche economicamente le piccole aziende che nascono con un progetto valido. Le stesse cantine sociali potrebbero favorire i conferitori a fare delle produzioni indipendenti, alla fine una proposta più numerosa andrebbe a vantaggio della denominazione e di tutto il Trentino viticolo, quindi delle stesse cantine già presenti, creando una forte motivazione nei nostri giovani».
Come è cambiato il Trentodoc e il metodo classico negli anni?
«Negli anni Ottanta i metodo classico erano abbastanza rigidi e con poco zucchero, dosaggi bassi, a volte non facevano malolattica, il clima era più freddo, la maturazione era meno spinta di oggi. Poi, negli anni Novanta, i dosaggi sono aumentati per avere più morbidezza, mentre dopo il 1995 probabilmente siamo stati i primi ad abbassare gli zuccheri per avere più bevibilità e fare in modo che il nostro spumante si potesse bere a tutto pasto. Oggi, invece, a mio avviso siamo in una fase dove sembra che più basso sia il dosaggio, più sei bravo: la verità è che la decisione di non dosare non può essere presa a tavolino, bensì assaggiando il vino che è in bottiglia. Bastano 2 o 3 grammi in più per cambiare l’impostazione del vino. Oggi, comunque, la differenza sostanziale è la maggiore consapevolezza nella gestione del vigneto e dell’uva, c’è molta più precisione e le produzioni sono più basse e controllate anche perché vengono pagate bene: si va dall’1,60 euro per lo Chardonnay ai 2,5 euro per il Pinot Nero».
Che consigli può dare a chi produce metodo classico?
«In primis di gestire tutto il processo, fin dalla pressatura, che è fondamentale: se lo si fa fare da altri non si potrà mai capire l’evoluzione del proprio vino e le motivazioni di certi risultati organolettici. Bisogna avere il coraggio e la pazienza di saper attendere il proprio vino e, così, rispettarlo. Se, invece, si vogliono accorciare i tempi, magari facendo aggiunte “miracolose”, spesso il risultato è negativo e nel bicchiere mancano espressività ed eleganza, due caratteristiche imprescindibili per il metodo classico».
Lei compie sessant’anni il 6 gennaio. Quando andrà in pensione?
«Non ci ho mai pensato, si vedrà. Se dovessi andarci, mi piacerebbe aiutare in amicizia qualche piccola azienda, magari vicino al mare così mia moglie è contenta. Quel che è certo è che non ho mai pensato di mettermi in proprio, ho sempre cercato di fare bene il mio lavoro in Ferrari e basta, dove sono arrivato appena diplomato. Era il 1986, e fin dall’inizio sono sempre stato ascoltato e messo in condizione di lavorare bene, ho imparato molto e avuto tante soddisfazioni, spero negli anni di essere riuscito a contraccambiare la fiducia che la famiglia Lunelli mi ha dato».
La pensione? Non ci ho mai pensato, si vedrà. Aiuterei in amicizia qualche piccola realtà
Potenzialità Dovrebbe aumentare il numero di produttori di spumante
Una proposta più numerosa andrebbe a vantaggio di tutti