La notte sbagliata di Baliani «Narro uomini e violenza»
Lo spettacolo L’attore e regista in scena stasera a Trento con un testo sulla perdita di relazione tra le persone: «Da Cucchi al barbone bruciato: siamo circondati dal buio»
Un uomo picchiato a morte da quattro agenti di polizia e quella che potrerebbe essere una notte qualunque diventa Una notte sbagliata. Lo spettacolo di e con Marco Baliani (stasera alle 20,30 al Teatro Sociale di Trento) è un dramma feroce che svela uno dei lati più oscuri della nostra società.
Marco Baliani, da dove nasce l’ispirazione per uno spettacolo così crudo?
«La riflessione è iniziata due anni fa con il precedente lavoro dedicato alla Prima Guerra Mondiale. Lì ho cominciato un percorso di ricerca sulla massificazione degli individui, passando attraverso l’Olocausto o la guerra a Sarajevo, ma anche attraverso alcune rivoluzioni lavorative come la catena di montaggio, analizzando a livello storico e macroscopico la perdita di dignità dell’essere umano».
Come può una singola storia intersecare queste tematiche?
«Tutti i giorni vediamo episodi di violenza: il barbone incendiato da quattro ragazzini annoiati, la vicenda di Stefano Cucchi. Persone che in molti casi ancora attendono
L’attore e regista Marco Baliani durante un momento dello spettacolo «La notte sbagliata» che stasera sarò al Teatro Sociale di Trento. L’ìattore è considerato il padre del teatro di narrazione giustizia. Mi sembra che si sia persa la sacralità dell’essere umano in quanto essere biologico dotato di vita. Ho voluto assumere il punto di vista di una persona quasi predestinata a diventare capro espiatorio della società. Tano, il protagonista, non corrisponde alla norma per problemi psichici e sociali, e per questo viene picchiato da 4 poliziotti frustrati. Ma non mi interessa raccontare un caso di cronaca, non ci sono buoni e cattivi. Voglio riflettere sulla perdita di relazione tra esseri umani in senso più ampio».
Lei definisce il suo come “teatro di post narrazione”. Di cosa si tratta?
«Sono stato in qualche modo l’inventore del teatro di narrazione, ma a un certo punto ho voluto sperimentare altro. Nello spettacolo non c’è un filo narrativo unico, prevale l’idea di un arazzo senza una specifica linearità. Il narratore perde autorevolezza e al suo posto prendono voce i diversi protagonisti della vicenda. Non solo Tano, ma il suo cane, un uccello che osserva la scena dall’alto, un medico. Si intersecano anche momenti di riflessione più tecnica e il tutto viene composto con la macchina sonora e con alcune proiezioni».
Cosa vuole raccontare?
«Tutti noi potremmo essere gli ultimi, o potremmo essere coinvolti in una situazione di questo tipo. Potrebbe succedere di assistere a una scena di violenza in cui più persone si accaniscono contro uno solo, ma cosa si sceglie? Se si interviene si rischia di diventare vittime in prima persona, ma se ci si gira dall’altra parte abbandoniamo un essere umano».
Qual è la soluzione?
«Quando si arriva a questo punto è già troppo tardi. Bisogna intervenire molto prima, con lo strumento indicato anche da Falcone e Borsellino: l’educazione. Imparare a smontare i messaggi che ci vengono trasmessi dalla pubblicità e dai social, sviluppare la cultura a tutto tondo, rifiutare la mercificazione della vita. L’unica possibilità di antagonismo è la fratellanza».
Il suo è un teatro politico?
«Sì, ma nel senso più nobile del termine. È un teatro che vuole toccare i nervi più alti della società e dell’umano, colpire ma al tempo stesso dare speranza».