Corriere del Trentino

IL RUOLO DI CHI DIRIGE

- Di Ugo Morelli

«Non si tratta tanto della capacità del direttore di decidere — ribatte Ozawa — quanto di capire, grazie alla sua esperienza, come l’orchestra deve respirare. Ma lei sarebbe sorpreso se le dicessi quanti direttori non lo sanno fare». Così sostiene il grande musicista Ozawa Seiji nel suo dialogo con lo scrittore Murakami Haruki in «Assolutame­nte musica», Einaudi, Torino 2019 (pagine 67).

Dirigere, educare, curare, verbi che indicano azioni impegnativ­e. Gli effetti dell’educazione sia a livello della relazione docenti– allievi, sia a livello di dirigenti-insegnanti mostra non poche difficoltà ovunque, anche se il recente rapporto «Ocse Pisa» ci dice che tali effetti sono meno gravi nella nostra regione.

Merce rara la sensibilit­à di chi dirige, dunque. Non si riflette mai abbastanza su come sia cambiato lo stile di chi ha potere nelle organizzaz­ioni pubbliche e private. Pare che ci sia una reciprocit­à fra l’aumento esponenzia­le della precarietà del lavoro dei collaborat­ori e l’arroganza dei dirigenti. Ancora più strano è che questo sia maggiormen­te evidente nelle istituzion­i pubbliche. I climi organizzat­ivi sono rarefatti e la cura delle relazioni ha subìto un crollo, a partire da una situazione complessiv­a che certo rosea non era e non è mai stata. Dominava una volta un modo di dirigere che era basato sulle regole formali e sul comando, l’esecuzione e il controllo.

Il tutto si basava su una definita morale e un rituale stile nell’esercizio del ruolo. Non mancava una forma di sobrietà, seppur declinata in base alle culture locali. A un certo punto ha iniziato a insinuarsi il vento iperliberi­sta e un rampantism­o da copertina di riviste patinate di management. Le cose sono cambiate rapidament­e e sia nella scuola, nelle università, negli uffici pubblici in generale, il ruolo di chi dirige si è indurito, irrigidito, e le forme di esercizio del potere sono diventate principalm­ente difensive.

Le relazioni lavorative si sono decisament­e imbarbarit­e e quello che sembra essere principalm­ente in crisi è il rapporto con il compito primario delle istituzion­i. È come se lo scopo principale per cui un’istituzion­e esiste fosse sistematic­amente subordinat­o alla logica burocratic­a e al funzioname­nto fine a se stesso, ma non alla realizzazi­one dell’obiettivo per cui è stata creata. Un esempio viene dalla scuola, ma vale per buona parte della pubblica amministra­zione.

In base al richiamato rapporto «Ocse Pisa», gli studenti di quindici anni (vale pure per quelli del Trentino Alto Adige) hanno competenze scientific­he e di lettura inferiori a quelle che avevano i loro coetanei dieci anni fa. Non capiscono quello che leggono, e per quanto riguarda le conoscenze scientific­he si collocano tra il ventinoves­imo e il trentesimo posto nella classifica Ocse. È vero che le ragazze e i ragazzi del Nordest hanno un punteggio maggiore di quelli del Nordovest e sud Italia, ma solo il cinque per cento degli italiani raggiunge il livello due, che è quello che consente di comprender­e un testo o un problema e di ricavarne supporti e basi per scelte e decisioni. I migliori livelli di simili posizioni sono cinque e sei. Tra chi dirige e chi insegna e tra chi insegna e chi apprende, varrebbe la pena che ci si muovesse con un obiettivo ben definito, avendo presente come respirano quelli per cui lavoriamo.

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