LE VALLI E I SERVIZI SBAGLIATI
È necessario investire sulle periferie, ma bisogna distinguere i fattori che ne radicano la popolazione da quelli che richiedono sicurezza
Con l’invecchiamento della società, il saldo negativo tra nascite e decessi (tendenza consolidata degli ultimi cinque anni), la precarizzazione dell’esistenza e anche una cultura del sé impermeabile a qualsiasi riflessione collettiva, si è registrato negli ultimi anni un completo rovesciamento di alcuni paradigmi della comunità. Che hanno a loro volta coinvolto la configurazione dei servizi. Nel campo della salute si disputa una delle partite politiche più significative — per ragioni di risorse e di risposte alle nuove problematiche — anche perché la «biopolitica» ha assunto il governo della vita come elemento essenziale del suo esercizio. E lì concentra pure la sua ricerca del consenso.
Da questo punto di vista, la questione dei punti nascita spiega molto dei conflitti e delle contraddizioni che si dispiegano nel nostro tempo e ha un suo elemento di complicazione nella particolare orografia del territorio provinciale. Qui la denatalità ha incrociato i requisiti ministeriali (500 parti all’anno come soglia minima già in deroga per il funzionamento di un punto nascita) sul terreno sensibile della marginalizzazione delle valli. Non è un caso che sia stato uno dei temi della campagna elettorale delle ultime provinciali e che abbia avuto una traduzione negli Stati generali della montagna voluti dal nuovo corso provinciale.
Nel dicembre 2018 ha riaperto il centro nascita dell’ospedale di Cavalese — un percorso di deroga avviato dalla giunta Rossi e concluso da quella Fugatti (dal centrosinistra al centrodestra) — e probabilmente tra pochi giorni anche quello di Arco, una situazione diversa da quella della valle di Fiemme, sarà riabilitato. Ma è un servizio reale quello che si ristabilisce senza i numeri per poter consentire ad un équipe medica di accumulare esperienza e con standard di sicurezza magari discreti ma non ottimali? Di chi sarà la responsabilità se capiterà qualcosa: del medico o della politica? Il dubbio rimane maneggiando anche i dati dei primi cinque mesi di attività a Cavalese: i parti sono stati 72 (uno ogni due giorni) e il costo medio è stato di 12.900 euro (contro i 2.300 dell’ospedale Santa Chiara di Trento). Significa che nello stesso bacino di utenza molte mamme hanno scelto di compiere l’ultimo atto della loro gravidanza a Trento o a Bolzano (o in altre strutture). Prediligendo, dunque, l’idea della sicurezza a quella del servizio sotto casa. Peraltro una tale conclusione è facilitata da un miglioramento dei sistemi di comunicazione e dal servizio provinciale di elisoccorso che è in grado di trasferire in emergenza una partoriente in pochissimi minuti. Questo sì può essere definito un servizio che caratterizza il Trentino. Al pari del «percorso nascita» dell’Azienda sanitaria che garantisce l’accompagnamento della futura mamma in tutta la sua gestazione attraverso team di ostetriche, rendendo sostanzialmente necessario lo spostamento solo nello stadio finale della gravidanza, ossia per il parto.
La scienza, e dunque i medici, hanno un giudizio quasi unanime che si basa sulle casistiche, sulle tendenze della società (non solo la crisi della natalità, ma anche lo slittamento delle maternità oltre i trent’anni), sui nomi e i volti di chi è rimasto segnato dall’emergenza. La politica, invece, vacilla in nome del consenso e dei propri ideali. Un territorio omogeneo per opportunità capace di sublimatersi re una realtà che restituisce e restituirà sempre un’altra verità. La politica non deve abbandonare il presidio delle valli — e il recente accordo tra Provincia e Federcoop è uno step utile per tamponare lo spopolamento —, ma dovrebbe saper distinguere tra i fattori che ne radicano la popolazione (lavoro, efficienza dei trasporti, viabilità, sistema d’istruzione, servizi essenziali come alimentari e banche) da quelli il cui accesso è sporadico e si antepone la qualità e la sicurezza alla vicinanza (cure sanitarie).
C’è infine un altro punto: una Provincia che ragiona di comprimere la spesa sanitaria di 120 milioni di euro — non sostituendo i pensionati, risparmiando sui farmaci oncologici, efficientando la rete hub&spoke — può permetdi riaprire punti nascita in deroga che richiedono adeguamenti alle strutture, nuovi medici (spesso irreperibili tanto che si vira sui gettonisti) e costi standard sei volte superiori alla media provinciale? È quantomeno una contraddizione.
È utopico e ingenuo credere in un «gentlemen agreement» in base al quale la politica di ogni colore condivida alcuni principi inderogabili sui quali non si può consumare la promessa politica ed elettorale (uno è la sicurezza), ma sarebbe davvero auspicabile. Si depotenzierebbero anche le troppe derive di piccole frazioni di comunità che barattano la qualità del servizio con la sua disponibilità, determinando cortocircuiti molto pericolosi.