L’esule Egea, una valigia, molti drammi
Foibe, l’esule Egea Haffner: scatto simbolo, avevo il broncio con il fotografo
Nella Giornata del Ricordo, accanto alle celebrazioni pubbliche, anche la voce dell’esule Egea Haffner. Il 6 luglio 1946, una giovane Egea venne immortalata in una foto con una valigia e la scritta «esule Giuliana».
TRENTO Egea Haffner, figlia di un infoibato, esule da bambina prima in Sardegna, poi in Trentino, è diventata il simbolo di una tragedia storica con la foto che la ritraeva con la sua valigia, pronta a lasciare Pola. E più recentemente ha catturato l’attenzione dei media quando ha deciso di rifiutare la cittadinanza onoraria offertale da diversi comuni del Nordest, in abbinamento alla senatrice Liliana Segre. «Non voglio essere strumentalizzata. Dalla politica? Meglio restarne fuori».
Signora Haffner, qualche mese fa si è trovata in mezzo a una polemica che la riguardava, quella delle cittadinanze onorarie conferite alla Segre, in cui lei ha rappresentato un possibile abbinamento, se non proprio un’alternativa…
«Pensi che l’ho scoperto perché mi telefonò un giornalista chiedendomi cosa ne pensavo!»
Come si è sentita?
«Strumentalizzata. Io sono una testimone storica e posso essere utile per un lavoro di ricostruzione della Storia, ma non mi interessa la politica».
Purtroppo si tratta di una Storia fortemente intrecciata all’ideologia. Come la vede?
«Beh, abbiamo dovuto lottare per fare emergere questa storia. È stato un lavoro collettivo. Qualche anno prima del 1995 ci siamo uniti in associazione di esuli e profughi e parenti degli infoibati a Trento. Poi nel 1997 collaborammo con il direttore del Museo della Guerra di Rovereto, Camillo Zadra. Gli aprii la scatola in cui tenevo quelle foto che ora hanno fatto il giro dello stivale».
La foto della bambina con la valigia su cui è scritto «esule giuliana». Si ricorda del momento in cui la foto fu scattata?
«Prima di partire, il 6 luglio del 1946 mamma volle lasciarmi un ricordo della mia terra. Così la zia mi fece i boccoli e lo zio scrisse quel cartello, “esule n. 30001”, perché trentamila erano gli abitanti di Pola, la nostra città di origine, più uno, cioè io, la bambina. Comunque quel broncio che è stato interpretato come simbolo della sciagura in realtà lo avevo perché ero infastidita dagli ordini del fotografo».
E poi l’esilio e le foibe caddero nel silenzio fino a metà degli anni Novanta?
«Pubblicamente sì. In realtà andavamo a parlare nelle scuole, dipendeva anche dai professori, non tutti erano interessati a fare conoscere questa storia ai loro allievi. Ma potremmo dire che sì, era una memoria vissuta privatamente, sulla nostra pelle».
Cosa aveva saputo di suo padre?
«Ero piccola ma sapevo tutto, comprendevo, capivo le assurdità che avevamo vissuto. Tra gennaio 1944 e marzo 1945 Pola era stata bersagliata dall’aviazione alleata che si trovava sotto l’amministrazione militare tedesca. Mio padre, che conosceva bene il tedesco, fu utilizzato come interprete dall’esercito. Per questa ragione, la notte tra i 4 e 5 maggio lo vennero a prelevare in casa, dicendogli di non prendere nulla con sé, tanto era solo una questione di formalità. Da allora non lo vidi più».
Dopo la foto messa in mostra al museo della guerra di Rovereto, è scattata una molla nella coscienza collettiva?
«Sicuramente quell’immagine è diventata iconografica di un dramma umano fatto di molti strati diversi: un dramma famigliare: quella bambina ha perso il proprio papà. Un dramma di abbandono: quella bambina ha una valigia, su cui è scritta la parola “esule”. Non tornerà a casa sua. E infine un dramma identitario: che ne sarà di quella “giuliana”?»
Oggi sta partecipando a molti progetti diversi. Qual è quello che la emoziona di più?
«Sicuramente l’aver depositato la prima pietra del Museo etnografico di Fertilia in Sardegna. Quella è stata l’occasione di ritrovare quelle persone con cui approdammo a Cagliari subito dopo l’esilio. Molti sono venuti a salutarmi, a stringermi, tanti di loro sono sopravvissuti e questo mi ha reso felice».