Fontana in regione con «Prima di noi»: «Responsabilità verso i morti»
BOLZANO Nonostante la giovane età (è nato nel 1981), Giorgio Fontana ha già all’attivo cinque romanzi. Con il libro «Morte di un uomo felice» (2014) si è aggiudicato il Premio Campiello. Il suo ultimo lavoro («Prima di noi», Sellerio 2020) si immerge nella vita di quattro generazioni (dal 1917 al 2012) appartenenti ad una famiglia di origine friulana (i Sartori), poi trasferitasi in Lombardia. Ha scritto Claudia Durastanti: «Questo romanzo è un proiettile che entra nel Novecento italiano, passa la storia da parte a parte e fuoriesce dal presente trasformando il lettore, dopo essergli entrato nella testa quanto nel cuore». Nella nostra regione Giorgio Fontana presenterà «Prima di noi» il 25 febbraio a Bolzano (libreria Ubik, ore 18), il giorno successivo a Rovereto (libreria Arcadia, ore 19) e, per finire, il 27 alla Ubik di Trento (ore 17.45).
In che modo si è avvicinato alla scrittura, era un’attività che faceva già parte del suo orizzonte familiare o si è sviluppata in seguito, magari durante gli studi universitari?
«Sono laureato in Filosofia, e credo che questo abbia avuto un certo influsso sul mio modo di guardare alla realtà — e forse anche alla narrativa. Ho avuto la fortuna di crescere in una casa con molti libri e fumetti, (Mondadori), cui è seguito (Marsilio 2008). Quindi (Sellerio, 2014), (Sellerio, 2016). e sono stato libero di curiosarvi senza troppe imposizioni: questo per quanto riguarda la lettura. La scrittura, invece, è nata più o meno durante l’adolescenza; mi sono sempre piaciute le storie, mi è sempre piaciuto raccontarle attraverso la lingua. Ma la maturazione è stata molto lunga. Scrivere romanzi non è una cosa che si impara in pochi mesi, e per quanto mi riguarda ha richiesto diversi anni».
Oggi lamentiamo una cospicua riduzione del numero di lettori di libri e giornali cartacei. Lei però non solo ha deciso di scrivere romanzi, ma adesso presenta un volume di quasi novecento pagine. Non le pare di essere stato, per così dire, eccessivamente temerario?
«Io credo ancora nella specificità della forma-romanzo, nella sua capacità di creare e stimolare un immaginario attraverso il solo uso del linguaggio. Non so che altro ruolo possa avere se non quello che ha sempre avuto, fino a quando non decadrà (e spero di non vedere quel momento). “Prima di noi” è un libro corposo semplicemente perché la storia richiedeva quel numero di pagine: fin dall’inizio mi era chiaro che sarebbe stato un romanzo molto lungo, anche se naturalmente non mi era chiaro di preciso quanto. La ricerca e lo studio sono durati una decina d’anni, di cui gli ultimi cinque di stesura e riscrittura».
Nonostante la sua mole, «Prima di noi» è però un libro che si può leggere anche tutto d’un fiato. Merito di uno stile estremamente scorrevole, lontano dallo sperimentalismo?
«Cerco di essere sempre chiaro nella formulazione espressiva, di ascoltare il ritmo della storia, e senz’altro non ho mai subito la fascinazione delle avanguardie o dello sperimentalismo: è una mia cifra fin dagli esordi. Tuttavia in “Prima di noi” mi pare di avere scaldato un po’ la tavolozza dei colori linguistici — un lavoro ancora in fieri, che spero di approfondire nei prossimi anni».
Affrontare vicende che legano quattro generazioni significa stendere un grande affresco umano e temporale, intonato al sentimento della «pietas». È possibile descrivere il senso di questo movimento complessivo, condensarne in un’immagine lo sbocco?
«Penso di sì. Come ha evidenziato con grande acume Elena Rausa in un pezzo sul romanzo: è l’Angelo della storia di Benjamin delle Tesi di filosofia della storia, che guarda con compassione al passato. Anche se a dirla tutta io avevo più presente la seconda tesi
Cerco di essere sempre chiaro nella formulazione. Non sono avanguardista
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