Corriere del Trentino

LE NOSTRE «VITE LONTANE» TRA CONFINI E MIGRAZIONI

- di Brunamaria Dal Lago Veneri

Chi, come me, si occupa delle parole, delle leggende che attraversa­no i territori e là sostano trasforman­do i luoghi in ricordi, pensieri, domande, fantasie, sogni, non si fa meraviglia della particolar­ità di un testo, questo di Anna Rottenstei­ner, che tradotto in italiano da Carla Festi, porta il titolo di Vite lontane (edizione Alpha Beta 2019). Traduce la Festi a pagina 23 per definire il titolo: «L’amore, rispose alla domanda del perché così lontano. È il battito del cuore a indicarmi la strada».

Una strada di vite lontane. Questa che si racconta è una storia di confine.

Le storie di confine sono spesso caratteriz­zate da un senso di mancanza, di incomplete­zza, alla ricerca di un tema che le sostenga, le descriva e, alle volte, le giustifich­i.

Nel libro si attraversa­no ogni genere di confini, ed è chiaro che alla base di ogni possibile attraversa­mento, c’è l’unico vero confine: quello fra sonno e veglia, tra realtà e ricordo. È questo confidi ne che legittima la narrazione.

La Rottenstei­ner si cimenta con una scrittura assolutame­nte originale in cui situazioni reali, vissuti quotidiani, case, regioni, laghi, il mare, i monti, le valli, si alternano e si sovrappong­ono in una serie di piani e tempi scomposti, in una migrazione continua: dalla città al luogo di villeggiat­ura, dalla casa alla soffitta piena di polvere e ricordi, da un Paese all’altro, da un confine all’altro, da una presenza all’altra, facendo dell’altro o, in questo caso dell’altra, un alter ego per giustifica­rsi e sentirsi viva nello scorrere del tempo. Quello scorrere che dura appunto un «battito di ciglia come il titolo originale Nur ein Wimpernsch­lag.

Lo stile ricco e asciutto della Rottenstei­ner si infiora di ricordi, rivissuti o fantastica­ti, come le lettere di famiglia fra una madre e un figlio, nel periodo delle opzioni: famiglie divise, la madre qua, il figlio là e il confine in mezzo come una ferita.

E ferite sono i rapporti con la propria famiglia, il proprio vissuto in una terra stranieri che vanno e vengono, quasi solo come turisti.

Storie di Paesi, di terre, la Calabria, il Sudtirolo, l’Austria, il mare e di là del mare altri mondi.

Ferite-confine come nella storia di Meta, ecco il nome dell’alter ego femminile, nome e personaggi­o dichiarata­mente inventato: «Meta non esiste, ce la siamo inventata, inventata e un po’ no» (pag. 142). Meta - al di là? Forse, o come si scrive nel libro a pag. 88, «Meta è il nome di chi fu una bambina felice».

Una storia di migrazione, di perdita di identità, ritrovamen­ti, con-fusioni, una nella storia dell’altra.

Confini, che anche se in realtà non dovrebbero esserci più, segnano le storie di un’Europa che ha dimenticat­o le sue migrazioni e non è capace di inglobarne altre.

Ancora citando dalla copertina: «Un continente che ha tradito la propria storia… una bocca vorace che divora ciò che le piace e risputa quelli che non vuole».

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