Balasso Arlecchino «Maschera di oggi»
Il comico in scena a Merano e Bolzano: «Questo pubblico? Amore dichiarato Ma io vado in crisi con la differenziata»
Al Puccini e al Cristallo la piéce con la regia di Binasco. L’attore: «Il segreto del successo? Ho avuto fortuna. Il talento te lo ritrovi tra i piedi, non c’è merito»
Doppia data per Natalino Balasso che martedì 25 alle 20.30 e mercoledì 26 alle 21 porta rispettivamente al Teatro Puccini di Merano e al Cristallo di Bolzano il capolavoro di Goldoni Arlecchino servitore di due padroni, diretto da Valerio Binasco.
Molti suoi colleghi affrontano con timore il pubblico altoatesino. Lei?
«Ormai c’è confidenza, è un amore dichiarato. Vengo da moltissimi anni e ultimamente collaboro strettamente con lo Stabile di Bolzano. Ci passo un po’ di tempo ogni anno».
Lavoro o vacanza?
«Lavoro. Ma la città è bellissima, sembra di essere in vacanza comunque. Poi, certo, recitare in città è molto diverso rispetto a farlo in centri piccoli: il pubblico cittadino è molto più abituato al teatro. Ma lì mi sono sempre trovato bene, salvo la mia grossa difficoltà con la raccolta differenziata. Sono veneto e vengo da luoghi in cui le immondizie si buttano direttamente nel canale. Mi ha molto colpito la vostra attenzione alla vita sana. Girando non vedo molti esempi così virtuosi».
Tante repliche per questo Arlecchino. È stanco?
«Non sono mai stanco, ma sono nato stanco. Arlecchino non è riposante: è depresso e goffo, ma mi tocca correre e io non sono un grande amante dello sport. Ora con Binasco mi tocca praticarlo».
In due anni il suo Arlecchino è cambiato?
«Gli spettacoli cambiano sempre, questa è la bellezza del teatro: non lo puoi afferrare. Trovo ridicole le critiche basate sulle impressioni di una sera. Cambia la confidenza che prendi con il personaggio e con ciò che dice. Gli spettacoli sono animali vivi, si trasformano continuamente».
E allora che Arlecchino arriva a Bolzano?
«Con la regia di Binasco ci siamo avvicinati più a Goldoni e meno alla versione strehleriana della commedia dell’arte, con frizzi e lazzi e personaggi grossolani che non hanno psicologia. Qui abbiamo personaggi più complessi, sul palco c’è verità, ma anche sentimento. E finalmente si capisce la storia: siamo di fronte a una trama interessante. Arlecchino è una sorta di italiano anni ‘50 di questa Italia povera ma dignitosa: ha bisogno di mangiare e di un lavoro».
Cosa lo rende attuale?
«Cerchiamo sempre nei classici cosa l’autore voglia dirci. In realtà siamo noi che dobbiamo tirare fuori le cose che ci possono servire per decifrare il presente. E questo spettacolo ci racconta molto del nostro tempo. Assistiamo a una sorta di ritorno all’indietro, la società sta diventando prevaricatrice, con rapporti di forza in cui ancora tanta gente ha il problema di mangiare e con l’avvento dei nuovi nazionalismi stiamo diventando più maschilisti».
Che messaggio può cogliere lo spettatore?
“Non ho mai visto il teatro come un’isola da cui lanciare bottiglie con scritti dei messaggi, ma come una sorta di caleidoscopio: tu guardi e decifri con gli strumenti che hai. È giusto che il teatro evochi sentimenti anche basilari, poi è il pubblico a interpretare. La religione dà risposte, il teatro pone domande».
A lei cosa sta lasciando l’Arlecchino?
“Soprattutto il lavoro fatto con Binasco, il mio regista ideale. A 60 anni faccio fatica a trovare chi mi possa insegnare qualcosa, l’esperienza porta a trovare difficilmente maestri. Ma ho trovato chi può insegnarmi qualcosa e me lo terrò stretto».
Qual è il segreto della sua carriera?
«Ho avuto fortuna. Riconosco di avere talento, ma il talento non te lo conquisti: te lo ritrovi tra i piedi, non c’è merito».