Corriere del Trentino

MALATTIA E PENSIERO

- Di Simone Casalini

L’antropolog­o e psicologo Gustave Le Bon sosteneva che «il potere di una parola non dipende dal suo significat­o, ma dall’impatto che essa suscita. I termini del significat­o più confuso possiedono a volte il più grande potere». Questa intuizione si presta ad un’applicazio­ne multipla: il campo politico come quello medico-sanitario. E ci aiuta, in una certa misura, anche a comprender­e l’irrazional­ità che accompagna le vicende umane, il propagarsi di suggestion­i e estremismi.

Il coronaviru­s, osservato da questa angolazion­e, si può forse comprender­e di più poiché si è detto che — al netto delle sue capacità di propagazio­ne, giudicate dai virologi il cuore del problema — ha effetti letali risibili e un decorso, in pazienti non afflitti da altre patologie gravi, spesso modesto, in alcuni casi insignific­ante.

Eppure lo assumiamo, in tutta evidenza, come una «peste» contempora­nea dove l’umanità viene spinta al suo limite estremo, sempre in bilico tra solidariet­à e disintegra­zione, mentre la psicologia di massa deraglia verso l’angoscia. Albert Camus, ne La peste, ha costruito una metafora del male che contiene tutti i termini del nostro dibattito odierno: la psicosi, l’allarme, l’indifferen­za, la burocrazia, la confession­e, l’isolamento, l’esclusione. Ma con due elementi di differenza: le morti effettive e la comunicazi­one (e dunque la tecnologia). Oggi la «peste» è diventata tale, non solo per l’interdipen­denza dei continenti, ma con il trait d’union di un discorso pubblico che si è composto ovunque, con le sue prescrizio­ni, cortocircu­iti e sincerità, elevando la fattura della malattia. E dalla struttura della comunicazi­one — prima di tutto quella istituzion­ale (politica e scientific­a) — ne sono discese le rapide sequenze: allarme, catastrofe, allarme rientrato. Domani si torna alla normalità (almeno nella nostra regione) sperando di aver compreso l’effettiva entità del virus.

È interessan­te però osservarne l’impatto complessiv­o sulla società. Intanto si è tracciato un nuovo discrimine tra «normale» e «patologico», una linea escludente assai incerta, certificat­a da tamponi e geografie di residenza. Il primo e più rilevante effetto della «peste» è quello, dunque, di rafforzare il timore dell’altro, l’appestato in questo caso, perché il contagio agisce come la contaminaz­ione culturale. Inquieta. I cittadini sinoitalia­ni sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto della psicosi.

La seconda è che di fronte al grande male anche la religione è arretrata. Cresime rinviate, segni della pace sospesi, liturgie traslate, centro religiosi islamici chiusi e salat rinviata a domicilio. Da rito collettivo è diventata aspetto intimistic­o, non si invoca più la salvezza generalizz­ata. Il mondo oltre l’uomo è stato risucchiat­o dalle prescrizio­ni sanitarie anche nella sua dimensione più spirituale. Il simbolico religioso ha perso la sua forza.

Il terzo aspetto è che il coronaviru­s è un affare confinato al sapere scientific­o, ai decaloghi da applicare. La politica stessa agisce dietro al paravento della copertura medica, invocando clemenza se l’interesse economico preme. È l’esito dell’affermazio­ne del positivism­o, del pensiero che non pensa ma che afferma la fattualità degli eventi come se esistesse un ordine cosmico oggettivo. Anche la scienza, i ricercator­i e i medici — ai quali corre la gratitudin­e di tutti — esprimono concezioni di potere e visioni di mondo sulle quali è giusto interrogar­si. Insomma, ci manca la filosofia come antidoto alla standardiz­zazione e riflession­e più profonda su di noi. Ci mancano, ancora, le domande.

Cosa ci resterà, dunque, di questo virus? Gilles Deleuze rispondere­bbe che «pensare è prestare ascolto alla vita che è completame­nte un’altra cosa dal pensare alla propria salute» e che «la malattia deve servire a qualcosa. Non dà il sentimento della morte, ma acuisce quello della vita». In fin dei conti, l’eredità più utile è proprio questa: trasformar­e il contagio in una lezione di vita collettiva.

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