Il farfarello scaccia-tosse Quei fiori giallo canarino usati anche per salare i cibi
Il nome botanico, Tussilago farfara, della famiglia delle Compositae, deriva dall’uso che se n’è fatto nel corso dei secoli passati: Tussis ago, in (mia) traduzione maccheronica «scaccia tosse»; farfara pare derivi dalla farina, perché la parte inferiore delle foglie è farinosa e bianca. Il nome volgare è farfarella o farfarello.
I miei testi sostengono che già dai tempi dei romani le foglie, raccolte in autunno, si usavano per calmare la tosse, la raucedine e il catarro. Leggo che foglie e fiori contengono potassio, sodio, calcio, magnesio, inulina – un glucoside amaro -, acidi, fitosterine e altri componenti di cui finora non conoscevo neppure l’esistenza.
Dai medici dell’antichità, gli Ippocratici, poi Galeno, Dioscoride, Plinio, e in tempi più recenti dal parroco Kneipp, ci giungono alte lodi su questa pianta, che, oltre alle proprietà descritte, pare abbia anche quella di combattere le infezioni. Prima della scoperta degli antibiotici serviva persino per curare i malati di tubercolosi, di scrofola, e gli attacchi d’asma. Le foglie fresche, schiacciate, leniscono bruciature, sfoghi della pelle e punture d’insetti.
Altre particolarità la rendono botanicamente interessante. Cresce benissimo su terreni magri, argillosi, umidi, trascurati. Appena si sgela il terreno, compaiono per primi i fiorellini a gruppi, di uno squillante colore giallo canarino.
Solo dopo alcune settimane escono anche le foglie; nei mesi estivi diventano molto grandi, ombreggiando il terreno sottostante. Emettendo fiori prima delle foglie è valso alla farfarella il nome in tedesco, «figlio prima del padre», dal latino Filius ante patrem. L’altro nome, più noto, è Huflattich, perché le foglie assomigliano a uno zoccolo equino, Huf, appunto. Le sue radici vanno molto in profondità, perciò nei campi non è benvenuto.
I contadini sostenevano che se i campi si aravano il giorno del Corpus Domini, la pianta sarebbe sparita definitivamente. Si diceva che i fiori del farfarello mescolati al fieno donassero ai cavalli un aspetto giovanile, focoso, perciò i mercanti li usavano spesso. Si sa inoltre che i nativi americani ne bruciavano le foglie; la cenere serviva per salare il cibo.
Ricordo che da piccola guardavo un po’ spaventata, però, mio malgrado, anche affascinata, i cosiddetti «ragazzacci» fumare le foglie di farfarello, mescolate a quelle di menta e asperula, in pipe artigianali fatte di tutoli di mais e rametti di sambuco svuotati. Non avrei mai osato imitarli.
Mio cugino era più coraggioso: le sedute dietro alte piante di ortiche mi parevano riunioni quasi spiritistiche, segrete, fascinose. Non mi pare che questo rito iniziatico al fumo abbia nociuto al gruppo dei monelli, tuttora vivi e vegeti, salvo uno, defunto per incidente stradale.