IL TEMPO E LO SPAZIO
Come succede ad un capo di lana di poca qualità al primo lavaggio, al diffondersi del contagio lo spazio si è improvvisamente rattrappito, ritratto. Questo fenomeno, per lo più avveniva gradatamente, man mano che ci si inoltrava nell’età della vecchiaia. Varcata da un poco la soglia dei novant’anni, Norberto Bobbio notava come il fondale della sua vita fosse stato sino a poco tempo prima il mondo, poi l’Europa.
Epoi ancora, progressivamente, l’Italia, Torino, il rione d’appartenenza, e infine la sua casa, la sua camera. Questa riduzione del mondo vasto alla nostra casa è avvenuta invece per noi tutto d’un colpo, e la latitudine della nostra mobilità misura le distanze tra salotto e bagno, cucina e camera. In primo piano si stagliano solo gli spazi privati: la vita è costretta, improvvisamente, dentro a un fondale di teatro ristretto, ristrettissimo, che ha assunto i contorni e insieme i confini della nostra casa.
Gli spazi pubblici sono desertificati: quegli spazi dominati dall’immaginario collettivo, ma dove anche le vicende personali che hanno costellato i nostri giorni si sono dipanate, acquistando, proprio in virtù di svolgersi in quel determinato luogo e non altrove, un senso compiuto, un’irripetibile identità. La percezione dello spazio non si è dunque ridotta ulteriormente in virtù di processi di mobilità e comunicazione che hanno trasformato il mondo — citando Marshall McLuhan — a un villaggio globale: il virus ha ingoiato, come un buco nero, gli spazi fisici della storia.
Per contro, il tempo si è dilatato: liberato dalle costrizioni di agende, appuntamenti, corse, pranzi di lavoro, riunioni. Si continua a operare: ma a distanza, immersi in una scansione di ore divenuta liquida, dove si confondono i giorni, dove i tracciati che ci guidavano tra lavoro e vacanza si sono fatti più confusi e spaesanti. Già la tecnica ci aveva abituati a vivere solo nel presente, dal momento che esisti solo se sei connesso, se mail e whatsapp trillano in continuazione, se in tempo reale puoi cliccare un like o un dont’like per lanciare il segnale che sei vivo e partecipe, per così dire, delle magnifiche sorti e progressive del genere umano. Ma qui il passaggio è ancora più radicale e si spinge fino a risucchiare il tempo della storia nel tempo del quotidiano. Nel suo divenire, la storia si disegna infatti come una linea progressiva — quella tracciata ancora dal sacro — per la quale l’origine del tempo (alfa) si qualifica come il punto nel quale è posta la profezia, e la sua fine si colloca nel momento (omega) nel quale la profezia si avvera, il Tempo finisce ed arriva il giudizio universale che apre all’Eternità. Dunque, passato, presente e futuro sono tra loro indissolubilmente legati, e costituiscono il filo narrativo di ogni cultura e letteratura: a partire da quella per l’infanzia, dove l’esordio prende sempre le mosse dal «c’era una volta un re» e il congedo si proietta indefettibilmente nel «vissero felici e contenti».
Il tempo del quotidiano, viceversa, come quello del mito, è circolare, propiziato dal trascorrere dei minuti scandito dalle lancette degli orologi e dal ritornare degli eventi: in un ripetersi di successioni che segmentano la vita intima, privata, già cadenzata, in un passato di cui serbiamo memoria, dal suono rassicurante della pendola che riparava dal rumore degli accadimenti, dal tumultuare degli eventi. Così, la circolarità del tempo, cui ci consegna il virus, è dunque il tempo della sospensione, dove storia e quotidiano sembrano coincidere, dal momento che niente, tolto l’infuriare della peste, in questo momento parrebbe esistere.
Tempo e spazio, pilastri e insieme colonne d’Ercole di ogni civiltà vengono così intaccate da una forza oscura, che rischia di restituirceli diversi da come li abbiamo sin qui conosciuti ed abitati.