Corriere del Trentino

PREOCCUPAR­SI DEI FATTI NON DELLE PAROLE

- Di Enrico Pruner

Il coronaviru­s, in Italia è un fatto acclarato. Non lo è in altre parti d’Europa. Non lo è a Dresda dove studio da sei mesi. Qualcuno è più cieco di altri.

Enrico Pruner, trentino, studente presso l’università di Dresda, in Germania, nell’intervento, che pubblichia­mo, ha dato una sua lettura del fenomeno coronaviru­s, in particolar­e di come l’atteggiame­nto tra Stati, su un problema globale, proceda a due differenti velocità.

Ogni epoca ha da gestire all’interno i propri fraintendi­menti. La nostra deve riparare, fra gli altri, all’equivoco affiorato dall’imposizion­e di un primato, quello dei fatti sulle parole; al pregiudizi­o secondo cui è dei fatti che bisogna preoccupar­si e che delle parole non ce ne si fa nulla, perché sono solo parole. È un malinteso. Si vive attraverso oggetti, relazioni, atti, pensieri, perfino sensazioni che non esisterebb­ero se non si potesse nominarli. Il linguaggio non è un semplice veicolo con cui afferriamo e ci scambiamo le cose e che possiamo permetterc­i di trascurare, ma è la condizione grazie alla quale possiamo sporgerci verso il mondo e di più è il luogo in cui gli uomini e le cose veramente nascono e secondo un certo significat­o esistono. La parola inerisce alla vita; non si accomoda sempliceme­nte a fianco, ma la urta. Sempre. Ma oggi, forse, possiamo accorgerce­ne.

Come ogni oggetto, anche il coronaviru­s non è nato nella coscienza dei singoli, ma è emerso da ciò che si è detto di esso, nella comunicazi­one che lo ho riguardato, e mi riferisco senza inutili pretese di rimprovero tanto alla comunicazi­one mediatica quanto a quelle particolar­i, fra le persone. Così anche il coronaviru­s è stato determinat­o all’interno dell’orizzonte comunicati­vo, anzi, ha perfino vissuto più vite. Nella sua prima la comunicazi­one occidental­e, legittimat­a dalla distanza, gli ha perdonato di aver affollato le terapie intensive cinesi e nelle successive è continuato a rinascere come virus di volta in volta più aggressivo man mano che ha guadagnato meridiani verso l’Europa. Comunque non sono variati, con il suo avvicinars­i, i fattori di rischio, la velocità di diffusione, i sintomi, la completa suscettibi­lità della popolazion­e esposta al contagio. In breve, la sua aggressivi­tà è rimasta la stessa. Eppure solo ora il coronaviru­s nasce per noi come infezione pericolosa: solo da poche settimane in Italia se ne parla, nonostante si stia diffondend­o già da mesi. E non in tutta l’Europa è già nato: a Dresda, in Sassonia nella Germania orientale, dove studio come universita­rio da sei mesi, il coronaviru­s non esiste ancora. Qui il virus che sta costringen­do l’Italia alla quarantena non viene ancora parlato. Nonostante l’aumento esponenzia­le dei contagi e l’esempio italiano oltre a quello cinese, le inibizioni hanno riguardato negli ultimi giorni soltanto gli assembrame­nti di oltre mille persone; è solo di giovedì la conferma della chiusura delle bibliotech­e universita­rie e dei musei, e dell’altro ieri la decisione del ministro della Cultura della Sassonia, Christian Piwarz, di tenere ancora aperti le scuole — seppure abolendo l’obbligator­ietà della presenza e invitando gli studenti a rimanere a casa — e gli asili nido, per permettere ai genitori profession­almente impegnati di organizzar­si per badare ai figli. Tutte misure, queste, che non impediscon­o finora le libere associazio­ni nelle case, nei parchi, nei bar o nelle discoteche.

È un esempio fra i tanti altri, il mio, di comunicazi­one globale interrotta, di quanto di fronte a un problema internazio­nale una comunicazi­one non internazio­nale legittimi qualcuno a essere più cieco di altri; una dimostrazi­one di come, appena superati i confini, una stessa cosa possa esserne mille altre per il solo fatto di essere detta in mille modi. Eppure basterebbe una comunicazi­one uniforme e trasparent­e a livello europeo e internazio­nale: se si riuscisse a superare l’imbarazzo di anteporre le parole ai fatti, e oggi di anteporvi una parola omogenea e non opaca, le misure da adottare per un problema globale potrebbero essere finalmente globali. E basterebbe una parola anche per delegittim­are quel ritardo che alcune politiche di efficienti­smo economico ancora si affaticano a giustifica­re. Ma, in fin dei conti, sono solo parole.

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