Sciortino, ordinario di Sociologia a Trento, indaga memorie e traiettorie degli europei dopo la decolonizzazione
«I primi immigrati arrivati in massa in Europa erano le persone di origine europea che tornavano dalle Colonie, quando il colonialismo finì». Giuseppe Sciortino, professore ordinario di Sociologia generale all’Università di Trento spiega i primi risultati della ricerca iniziata tre anni fa per «The International Migration Laboratory», una ricerca transdisciplinare che vede il coinvolgimento delle facoltà di Giurisprudenza, Scienze Cognitive e Sociologia dell’ateneo trentino, congiuntamente all’università americana di Yale. I risultati si trovano nella pubblicazione internazionale uscita da poco per i tipi di Palgrave McMillan, intitolata The Cultural Trauma of Decolonization. Colonial returnees in the National imagination di cui Sciortino è curatore insieme a Ron Eyerman.
Professore, la ricerca che avete fatto indaga le traiettorie e le memorie dei coloni europei dopo il processo di decolonizzazione. Cosa emerge dopo questa prima fase di ricerca?
«Il primo flusso migratorio che ha raggiunto l’Europa nella storia è stato quello dei ritornati dalle colonie. Si trattava di milioni di persone, tornati dall’Algeria, dalla Libia, e non solo. Un flusso massivo in un tempo breve. Il Portogallo ha visto aumentare la sua popolazione nazionale del 6% in due anni, dopo la decolonizzazione».
Possiamo dunque dire che la decolonizzazione inaugura i flussi migratori in Europa?
«Fino a quel momento il continente aveva conosciuto solo l’emigrazione oppure le migrazioni intra-europee, per esempio dall’Italia verso la Germania. Con la decolonizzazione sono invece arrivate persone dal di fuori dei confini continentali e dentro questo
Nella foto grande «Champagne kid (learning)» di Yinka Shonibare. Qui sopra Giuseppe Sciortino flusso di massa c’era stato anche l’arrivo di persone con la pelle nera, o comunque non bianca».
Si tratta di una storia coloniale solo europea?
«No, l’altro caso è il Giappone. Nel processo di decolonizzazione ha visto tornare nelle isole nipponiche due milioni di persone in poche settimane».
Che destino attendeva “i ritornati”?
«Beh, si prevedeva per loro un futuro nero. Molti avevano perso terre e privilegi, spesso anche lo status sociale. Addirittura le organizzazioni internazionali cercarono di mandarli in altri continenti, tipo l’Australia. Molti temevano che il loro ritorno coincidesse con la nascita di nuovi movimenti fascisti o nuove forme di autoritarismo. Ma, in barba alle fosche previsioni, questo non succedette e i ritornati si integrarono piuttosto rapidamente per due ragioni: perché conoscevano la lingua d’origine e perché avevano la cittadinanza: due elementi imprescindibili per l’integrazione di chi arriva da fuori».
Erano anche favoriti da un periodo storico particolare…
«Assolutamente sì: c’era il miracolo economico per cui tutti venivano assorbiti, tutti lavoravano. Quella dei ritornati, che doveva essere una storia di sconfitta, diventava una storia di successo».
Per questo che la memoria dei coloni è andata perduta?
«Diciamo che inizialmente la loro memoria venne zittita. Vissero un lungo periodo di latenza. In Europa si smise di parlare di imperi, dunque non si parlava più nemmeno dei ritornati, anzi. Nessuno voleva sentire parlare di loro, era un periodo vissuto molto male, ma che trasformava la memoria collettiva in memoria privata, non rilevante politicamente. I figli si ricordavano solo vagamente della vita nelle colonie dei genitori».
Da cosa dipende il fatto che la memoria storica diventi collettiva - e dunque politica oppure solo privata, pur coinvolgendo un grande numero di persone?
«Conta l’impatto sociale, non l’oggettività dell’accaduto storico. Questo dipende dalla capacità delle vittime di un trauma culturale di presentarsi come vittime universali in un contesto che le possa recepire tali. Le memorie dei ritornati nei Paesi distrutti dalla guerra, come l’Italia, venivano assorbite da una narrazione di sconfitta generalizzata: abbiamo perso la guerra, voi avete perso le colonie, altri hanno perso la vita. Altri Paesi, come il Portogallo, avevano scelto di perdere le colonie nel 1976, perché volevano essere europei, entrare in un mercato libero e moderno, dove il colonialismo rappresentava una mentalità retrò. Anche in questo caso, non si poteva dare spazio alle memorie dei ritornati, semmai si doveva ignorarle».
Si continua a parlare poco di colonialismo?
«Oggi il colonialismo sembra una cosa della preistoria, quando invece l’ultimo impero coloniale finisce nel 1976, mentre il primo è del 1941. Non sono fatti così antichi. Più che parlarne poco, se ne parla in modo schizofrenico. Una parte del mondo ne parla, l’altra parte no. Alla latenza dell’opinione pubblica ha corrisposto un lavoro di ricerca accademica, ma pur sempre destinato alle élite. Qualche tempo fa, un personaggio politico di rilievo ha dichiarato pubblicamente che l’Italia non ha mai avuto colonie… È indicativo di una narrazione sul colonialismo quasi inesistente. La Storia non sembra essere oggettiva».