LA VITA DEI VECCHI
La spaventosa epidemia che dilaga in tutto il mondo, ha reso le nostre vite precarie, e ha scoperto quelli che nel mio ultimo libro ho chiamato «i territori dell’umano». Si è detto che le tecnoscienze ci avrebbero dovuto garantire dai mali, che ben presto ci avrebbero regalato l’immortalità, rendendoci, come scrive Harari, «simili a dei». Nessuno nega i vantaggi portati dalla scienza e dalle tecniche, ma il virus ha sgretolato l’orgoglio prometeico di queste mitologie.
Nei territori dell’umano si scopre il dolore, la solitudine, la derelizione, il faccia a faccia con la morte. Si scopre quello che i Greci sapevano. Noi siamo i mortali, «creature di un giorno», o come ha scritto Ungaretti, in realtà traducendo Omero: «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le fogli».
Ma l’epidemia ha sollevato problemi politici e etici immani. È visibile a tutti la drastica riduzione delle libertà e dei diritti umani. Ha scritto Zagrebelsky che il diritto alla salute e alla vita sono un valore preminente rispetto ai singoli, anche se, aggiungo io, la sorveglianza sui diritti deve essere comunque sempre vigile.
Vorrei riflettere un attimo però su una problematica etica che è emersa in modo, a mio giudizio, sconcertante. Da più parti si è detto che tra un giovane e un vecchio è doveroso curare il giovane. E qui, a mio giudizio, c’è un problema enorme. Chi giudica se quella parte, anche piccola di vita debba essere sacrificata? Elias Canetti ha scritto che quando muore un vecchio muore più vita. Che la vita di un vecchio è un intreccio di esperienze, di storie che dovrebbero essere salvaguardate.
Scelta drammatica, dunque. Da un lato una quantità di vita vissuta che può rendere ricca la vita residua, dall’altro una vita in parte ancora potenziale che, ancor più immersa nel mondo, acquista un valore che deve essere salvaguardato. Forse per proteggere i medici da questa drammatica alternativa c’è stato chi, a livello autorevole, ha chiesto che si fissasse un limite di età per dare accesso alla terapia intensiva. Non perché io sia probabilmente prossimo a questo limite, vorrei sottolineare la china su cui si può rapidamente franare nella barbarie. Dopo aver posto questo limite perché non porlo per quelli che pudicamente vengono definiti diversamente abili, per esempio soggetti con gravi anomalie fisiche o importanti limiti cognitivi. La democrazia, la nostra democrazia, è nata e si basa proprio sulla distanza rispetto alla Rupe Tarpea, al sacrificio dei deboli rispetto ai forti. Questo è quello che chiamiamo welfare. La saldatura tra la necessaria limitazione dei diritti individuali e questo slittamento etico non può non preoccupare. Le decisioni centrali dovranno a un certo punto diventare dibattito pubblico. Salvini chiedeva pieni poteri per il bene superiore della Patria, qualunque cosa questo significasse per lui. L’uso di pieni poteri per il bene superiore della salute, senza il necessario confronto parlamentare e pubblico, può far emergere quel nemico che già secondo Tocqueville si annida sempre anche nel cuore della democrazia.