L’ARTE DI ARTURO ARROTINO D’ANIMO BUONO
TRENTO «Eravamo pronti, sapevamo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento, ma non volevamo che se ne andasse in questo modo, da solo». È forse il dramma (umano) più grande dell’emergenza coronavirus: il dolore che rimane rinchiuso in se stesso, che resta indicibile, incomunicabile, non condivisibile. A delinearne i contorni, in maniera lucida, ma allo stesso tempo straziante, sono i tre figli di Arturo Riccadonna, il 92enne deceduto martedì scorso con Covid-19 (e altre patologie pregresse) nell’ospedale di Tione.
La notizia della morte di loro padre è arrivata quando le limitazioni alle visite nelle case di riposo erano già scattate, così come l’obbligo di celebrare i funerali in forma privata, senza strette di mano, davanti alla fossa o al loculo. «I figli erano disperati perché vivono in provincia di Como e non sapevano neppure se sarebbero potuti venire al funerale», spiega Paolo Schoensberg, direttore della Rsa di Bleggio Superiore, dove il 92enne era ospite da gennaio.
Arturo Riccadonna era nato e vissuto fino alla giovinezza a Bleggio. Nella sua casa natale, quando era poco più che maggiorenne, era riuscito a sconfiggere una grave malattia, giudicata in un primo momento irreversibile. Una volta superato l’ostacolo, si sposò con una giovane del posto, da cui ebbe subito un figlio. Con la famiglia, poi, si trasferì nel comasco, dove arrivarono anche gli altri due figli. La sua professione era un antico mestiere: faceva l’arrotino. Era stato anche operaio comunale, ma il cuore ha sempre guidato le sue mani sugli attrezzi per l’affilatura. «Quando tornò a Bleggio, dopo la pensione, continuava a fare l’arrotino come hobby per i suoi amici», ricorda il direttore. Rientrati nella terra d’origine, in località Marazzone, la moglie lo aveva lasciato esattamente un anno fa. «Anche lei era stata ospite della casa di riposo – racconta Schoensberg – Arturo veniva a trovarla tutti i giorni e le portava sempre una spremuta d’arancia e delle mele cotte. Era una persona dolce e amante della compagnia, se n’è andato uno dei migliori».
Come Arturo, anche Gabriele Corradini – scomparso giovedì all’età di 75 anni a seguito di un’infezione da coronavirus nell’ospedale di Rovereto – aveva lasciato il suo paese di origine, per poi farci ritorno dopo la chiusura del suo studio professionale di Bolzano. Nel capoluogo altoatesino era cresciuto e aveva lavorato come commercialista, ricoprendo anche la carica di presidente di Confidi e importanti ruoli nel Teatro Stabile e nella Fisg. Tornato nella sua amata terra natia, a Castello di Fiemme, aveva continuato a coltivare la sua passione per il canto popolare, passando dalla guida del Coro Laurino a quello della Valfiemme. Ma negli ultimi tempi il 75enne, sostenuto da tutta la famiglia, andava e tornava da Milano per curare un tumore. «Caro Lele, avevamo ancora tanti progetti da portare avanti, ne stavamo parlando e li stavamo pianificando — lo ricorda su Facebook il maestro del Coro Valfiemme, Stefano Vaia — Eri la nostra roccia, eri il nostro faro e lo sarai sempre. Non meritavi di andartene così e soprattutto adesso, in questo difficile momento in cui ci è persino precluso accompagnarti per l’ultimo saluto su questa terra, cantando con Te e per Te. Grazie per tutto ciò che hai fatto per noi, per la tua presenza costante, il tuo impegno, la tua generosità, la tua giovialità, il tuo buonumore, le tue risate, la tua positività capace di spazzare qualunque nuvola».
Caro Lele nel Coro Valfiemme eri la nostra roccia, il nostro faro e lo sarai sempre Non meritavi di andartene così. Grazie per la tua presenza, il tuo impegno, le tue risate