LA CRUDELTÀ DEL VIRUS E LA GESTIONE DEL LUTTO
In questo momento, in cui lo stordimento e il disorientamento sono le emozioni che prevalgono, cerchiamo di capire: guardiamo e riguardiamo grafici e tabelle; ascoltiamo e riascoltiamo conferenze e interviste. Osserviamo con ammirato sguardo la comunità attiva, fatta di operatori sanitari e istituzioni, impegnata ad evitare che questa emergenza diventi un’ecatombe. Poi ci sono coloro a cui si chiede di rinunciare alla libertà di movimento e che esprimono la fatica di tale rinuncia, a volte alzando la voce.
Ma c’è un’altra parte di comunità di cui non ci stiamo accorgendo. Il suo silenzio è dovuto al dolore che si mangia la forza di alzare la voce. È la comunità dei famigliari che hanno visto morire un proprio caro e non hanno potuto essergli vicino, neppure nell’ultimo viaggio al camposanto. Ecco, questa è una delle cose che rendono questo virus particolarmente crudele: impone l’isolamento. Desidero condividere alcuni pensieri riguardo al lutto, al suo processo e al peso della sua interruzione.
Perdere una persona cara è un fatto doloroso, ma che apoperatori partiene alla vita. Tutti ci siamo confrontati e ci confronteremo prima o poi con questo evento. Affrontare questa esperienza richiede un lavoro psicologico che ha sfumature, emozioni, intensità diverse secondo le caratteristiche di ognuno e secondo la vita che si è trascorsa con il proprio caro. Non entro in dettagli che ci porterebbero lontano, ma voglio soffermarmi su alcuni passaggi importanti, che sono di tutti. Viverli in un certo modo può aiutarci nel processo di elaborazione.
I passaggi appartengono a due fasi temporali: il prima e il dopo la morte. Il prima della morte è quel periodo più o meno lungo in cui si comincia a essere consapevoli che la separazione può avvenire a breve. Rappresenta per molti il tempo della memoria, quella che Dante chiama «la puntura della rimembranza». Un amarcord carico di immagini ed emozioni remote. Non tutte belle. Alcune sono dolorose; altre sono accompagnate addirittura da rabbia. L’importanza di questo momento è che può rappresentare anche il momento della possibile riparazione. Si possono dire cose mai dette; esprimere riconoscenze taciute; ammettere colpe; chiudere amichevolmente conti in sospeso. Può essere il tempo della riconciliazione. Ben lo sa chi lavora dentro questo tempo; gli e i volontari nei servizi Hospice. Sono tutti concordi che è un momento prezioso e va tutelata la possibilità di una vicinanza che unisce vita e morte e che dà — può sembrare impossibile — serenità.
La crudeltà di questo virus sta dunque anche nell’amputazione di questa possibile attività riparatoria. Si impone (ed è inevitabile) un isolamento protettivo, allontanando i corpi infetti da quelli sani, ma con ciò si crea una desolante frattura nelle vite di entrambi. Strazianti sono le testimonianze dei sanitari che raccontano di malati che chiedono di portare i saluti ai cari, di baciare figli e nipoti; che chiedono di guardare per un’ultima volta i loro volti su un tablet. E strazianti sono i pensieri dei familiari all’idea di lasciare i congiunti abbandonati in questo irripetibile momento.
A chi sopravvive è impedito anche il rito postumo della sepoltura. È negata la possibilità di condividere il distacco con tutta la comunità attraverso il rito. Ci sono riti diversi nelle diverse culture, ma che contengono tutti alcune aree in comune. Innanzitutto la condivisione del dolore che, nella compresenza di tutte le persone che avevano conosciuto il proprio caro, può temporaneamente diluire e rendere tollerabile la sua scomparsa. Sapere quanto sia anche nella memoria di altri, ci fa sentire meno soli.
Onorare i morti è anche il modo con cui i vivi esprimono il proprio debito per quello che hanno ricevuto. Il rito funebre è quindi un modo collettivo, ma vissuto con profondo coinvolgimento individuale, di riconoscenza nei loro confronti. È una «messa in scena» del rispetto e dell’affetto che riserviamo a loro, ed è questo affetto, uno degli elementi che uniscono le generazioni. Perché rende manifesto il legame e immortale il lascito e ci consola dall’essere stati definitivamente separati. Il non poterlo celebrare trasforma una separazione in un abbandono, in una cesura.
La virulenza con cui siamo stati investiti da questa epidemia, la necessità di rispondere con rapidità, il presentarsi di problemi logistici e di coordinamento complicatissimi hanno rappresentato un’inevitabile scotto da pagare, che ha lasciato poco tempo al pensiero e all’accoglienza delle emozioni del lutto. La professione che rappresento mantiene costante lo sguardo sulla vita, che deve essere sostenuta e vissuta con libertà interiore e fiducia. Una professione però attenta anche alla morte, un tema con cui ci confrontiamo fin da quando apriamo gli occhi sul mondo. L’invito è per tutti: togliamo dal dietro le quinte questo scenario, prendiamocene tutti carico e facciamoci portatori dinanzi alle istituzioni e alla politica del dolore sommesso e muto di coloro che hanno perso e perderanno un loro caro..