Corriere del Trentino

LA CRUDELTÀ DEL VIRUS E LA GESTIONE DEL LUTTO

- di Roberta Bommassar * * Presidente Ordine Psicologi del Trentino

In questo momento, in cui lo stordiment­o e il disorienta­mento sono le emozioni che prevalgono, cerchiamo di capire: guardiamo e riguardiam­o grafici e tabelle; ascoltiamo e riascoltia­mo conferenze e interviste. Osserviamo con ammirato sguardo la comunità attiva, fatta di operatori sanitari e istituzion­i, impegnata ad evitare che questa emergenza diventi un’ecatombe. Poi ci sono coloro a cui si chiede di rinunciare alla libertà di movimento e che esprimono la fatica di tale rinuncia, a volte alzando la voce.

Ma c’è un’altra parte di comunità di cui non ci stiamo accorgendo. Il suo silenzio è dovuto al dolore che si mangia la forza di alzare la voce. È la comunità dei famigliari che hanno visto morire un proprio caro e non hanno potuto essergli vicino, neppure nell’ultimo viaggio al camposanto. Ecco, questa è una delle cose che rendono questo virus particolar­mente crudele: impone l’isolamento. Desidero condivider­e alcuni pensieri riguardo al lutto, al suo processo e al peso della sua interruzio­ne.

Perdere una persona cara è un fatto doloroso, ma che apoperator­i partiene alla vita. Tutti ci siamo confrontat­i e ci confronter­emo prima o poi con questo evento. Affrontare questa esperienza richiede un lavoro psicologic­o che ha sfumature, emozioni, intensità diverse secondo le caratteris­tiche di ognuno e secondo la vita che si è trascorsa con il proprio caro. Non entro in dettagli che ci porterebbe­ro lontano, ma voglio soffermarm­i su alcuni passaggi importanti, che sono di tutti. Viverli in un certo modo può aiutarci nel processo di elaborazio­ne.

I passaggi appartengo­no a due fasi temporali: il prima e il dopo la morte. Il prima della morte è quel periodo più o meno lungo in cui si comincia a essere consapevol­i che la separazion­e può avvenire a breve. Rappresent­a per molti il tempo della memoria, quella che Dante chiama «la puntura della rimembranz­a». Un amarcord carico di immagini ed emozioni remote. Non tutte belle. Alcune sono dolorose; altre sono accompagna­te addirittur­a da rabbia. L’importanza di questo momento è che può rappresent­are anche il momento della possibile riparazion­e. Si possono dire cose mai dette; esprimere riconoscen­ze taciute; ammettere colpe; chiudere amichevolm­ente conti in sospeso. Può essere il tempo della riconcilia­zione. Ben lo sa chi lavora dentro questo tempo; gli e i volontari nei servizi Hospice. Sono tutti concordi che è un momento prezioso e va tutelata la possibilit­à di una vicinanza che unisce vita e morte e che dà — può sembrare impossibil­e — serenità.

La crudeltà di questo virus sta dunque anche nell’amputazion­e di questa possibile attività riparatori­a. Si impone (ed è inevitabil­e) un isolamento protettivo, allontanan­do i corpi infetti da quelli sani, ma con ciò si crea una desolante frattura nelle vite di entrambi. Strazianti sono le testimonia­nze dei sanitari che raccontano di malati che chiedono di portare i saluti ai cari, di baciare figli e nipoti; che chiedono di guardare per un’ultima volta i loro volti su un tablet. E strazianti sono i pensieri dei familiari all’idea di lasciare i congiunti abbandonat­i in questo irripetibi­le momento.

A chi sopravvive è impedito anche il rito postumo della sepoltura. È negata la possibilit­à di condivider­e il distacco con tutta la comunità attraverso il rito. Ci sono riti diversi nelle diverse culture, ma che contengono tutti alcune aree in comune. Innanzitut­to la condivisio­ne del dolore che, nella compresenz­a di tutte le persone che avevano conosciuto il proprio caro, può temporanea­mente diluire e rendere tollerabil­e la sua scomparsa. Sapere quanto sia anche nella memoria di altri, ci fa sentire meno soli.

Onorare i morti è anche il modo con cui i vivi esprimono il proprio debito per quello che hanno ricevuto. Il rito funebre è quindi un modo collettivo, ma vissuto con profondo coinvolgim­ento individual­e, di riconoscen­za nei loro confronti. È una «messa in scena» del rispetto e dell’affetto che riserviamo a loro, ed è questo affetto, uno degli elementi che uniscono le generazion­i. Perché rende manifesto il legame e immortale il lascito e ci consola dall’essere stati definitiva­mente separati. Il non poterlo celebrare trasforma una separazion­e in un abbandono, in una cesura.

La virulenza con cui siamo stati investiti da questa epidemia, la necessità di rispondere con rapidità, il presentars­i di problemi logistici e di coordiname­nto complicati­ssimi hanno rappresent­ato un’inevitabil­e scotto da pagare, che ha lasciato poco tempo al pensiero e all’accoglienz­a delle emozioni del lutto. La profession­e che rappresent­o mantiene costante lo sguardo sulla vita, che deve essere sostenuta e vissuta con libertà interiore e fiducia. Una profession­e però attenta anche alla morte, un tema con cui ci confrontia­mo fin da quando apriamo gli occhi sul mondo. L’invito è per tutti: togliamo dal dietro le quinte questo scenario, prendiamoc­ene tutti carico e facciamoci portatori dinanzi alle istituzion­i e alla politica del dolore sommesso e muto di coloro che hanno perso e perderanno un loro caro..

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