«Stato efficientista, il rischio è sovrastare i diritti costituzionali»
«Fino all’Età moderna, non prima del Quattro-Cinquecento, i giuristi non si occupavano di peste e di ogni altra epidemia che il termine, in passato, comprendeva. Le regole per affrontare queste emergenze erano già stabilite e non c’era alcuna necessità di produrre nuove norme o di interpretare quelle esistenti», spiega subito Cecilia Natalini, docente di Storia del diritto all’Università di Trento.
Non si emanavano decreti e ordinanze a profusione per arginare il contagio come succede oggi?
«Durante le pestilenze entrava in vigore la legislazione di guerra e il diritto romano in questo era molto dettagliato. Comunque no, fino alla soglia dell’età moderna non ci sono trattazioni specifiche da parte di giuristi, la questione era lasciata ai medici. E mi verrebbe anche da dire: per fortuna!».
Per fortuna che non se ne siano occupati?
«Quando hanno iniziato a trattare l’argomento, quando hanno iniziato a circolare i trattati con il titolo “De Peste”, come quello di Gian Francesco Ripa che è il primo autore che affronta la questione anche sotto il profilo giuridico, si va formalizzando l’idea di uno Stato amministratore, una sorta di Stato di polizia in nuce che è tutore della salute pubblica. E succede che tutta la questione viene riportata sotto la categoria logica della utilitas rei publicae, sotto la cui etichetta venivano emanate una serie di misure che andavano dall’imposizione di collette per la costruzione di nuovi ospedali fino alla limitazione della circolazione, con autocertificazioni per entrare in una civitas come dobbiamo fare noi oggi. Oltre alla parte giuridica c’era, in più, una parte morale, quella che definiva peccato il contatto con un contagiato».
Quest’ultima ci viene oggi risparmiata, così come lo «stato di guerra». Ma rimane il fatto che lo «stato di polizia» si intraveda anche nelle misure adottate oggi. Alcuni giuristi si pongono delle domande: lei cosa pensa?
«Non credo sia questo il momento per mettere in discussione oltre un certo limite la legittimità delle misure che sono state prese dal governo, perché c’è uno stato di emergenza che deve essere affrontato. Però obiettivamente il problema può esistere, perché un decreto legge a cui segue un’ordinanza è qualcosa che non sta in piedi dal punto di vista giuridico. Ma non c’è dubbio che queste scelte interpretino lo Stato come tutore della salute pubblica, con il rischio però che il principio efficientista possa sovrastare il principio garantista».
La storica Fino all’età moderna i giuristi non si occupavano di peste: entrava in vigore la legislazione di guerra. Oggi discutere le scelte del governo è pericoloso
Alcuni costituzionalisti, a proposito delle decretazioni di urgenza firmate dal Presidente del Consiglio, parlano di «torsione costituzionale». È d’accordo?
«Dal punto di vista giuridico non fa una piega, non è possibile mediante decreto conculcare diritti costituzionalmente garantiti, su questo non ci piove. Trovo che sia la conseguenza dell’esasperazione dell’efficientismo dello Stato. Ma ci si deve anche rendere conto che mettere in discussione queste misure può essere oggi pericoloso e avere un impatto negativo sulla comunità».
Una comunità che spesso auspica misure ancor più draconiane, che guarda alla Cina, un sistema autoritario, come a un modello da seguire. C’è il rischio di una sorta di «diciannovismo», di un desiderio latente di maggiore autoritarismo tra la popolazione?
«Non c’è dubbio che tutto ciò che è riconducibile ad azioni autoritarie può in linea di principio raggiunge effetti immediati. Ma il fatto che si auspichi questo è sintomatico di una democrazia che in realtà è malata e non sa usare gli strumenti opportuni che già esistono. Il decreto legge permette di agire nell’immediato ma al contempo di essere valutato in temi ragionevoli dal Parlamento, che non può permettersi di rinunciare alla sua funzione di controllo e di garanzia per i diritti costituzionali».