TERAPIA INTENSIVA, SELEZIONE E LA SCELTA DEL MALE MINORE
Il dibattito su un tema molto delicato
Un documento in cui si suggeriscono alcune raccomandazioni per «l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili». Il tema è evidentemente cruciale: si tratta di elaborare i criteri in base ai quali decidere le priorità nell’accesso alle terapie intensive; priorità da cui può dipendere il mantenimento in vita degli ammessi e il decesso degli esclusi. A riguardo, com’è naturale, si sono divise le posizioni fra quanti ne hanno denunciato l’insensibilità e la intrinseca violazione del principio costituzionale e deontologico di non discriminazione e quanti ne hanno salutato il realismo e l’utilità in una situazione di drammatica quanto oggettiva emergenza. Si è, inoltre, detto che la drammaticità della fase che stiamo vivendo avrebbe dovuto consigliare un documento che rassicurasse la popolazione, soprattutto quella più vulnerabile, invece che ammettere il rischio di dover selezionare i malati. D’altro canto, si è sostenuto che proprio la criticità della situazione impone un obbligo sociale di trasparenza dei criteri che si devono adottare in momenti di emergenza oltre che il dovere delle società scientifiche di aiutare i professionisti nel compiere scelte difficili.
A fronte di tali diverse impostazioni, una prima considerazione si può fare in riferimento alla fonte del documento. Gli autori, infatti, appartengono alla Società che raccoglie i professionisti in prima linea nel combattere la grave epidemia che ha colpito il nostro Paese (e non solo). Si tratta di persone che si stanno dedicando, anima e corpo, a un’attività faticosa ed estremamente rischiosa per sé (sono oggi circa 3.700 i professionisti contagiati) e per i cari con cui vengono a contatto nei momenti di «tregua». E il fatto che la Società Italiana di Cure Palliative e la Federazione Cure Palliative ne abbiano sostenuto l’azione, evidenziando «l’importanza del principio etico di giustizia allocativa delle risorse che, in situazioni di grave scarsità delle stesse, deve governare le scelte di ammissione e sospensione delle cure» dimostra che, purtroppo, il problema c’è ed è rilevante.
In questi giorni, infatti, si stanno esprimendo un po’ tutte le equivalenti società scientifiche o comitati etici europei, quello tedesco, spagnolo, francese, britannico. Il punto, purtroppo, è che il servizio sanitario di alcune aree del Paese, anche se non da noi, ha raggiunto un livello di sofferenza estrema, in cui i posti di terapia intensiva non sono più sufficienti a coprire le esigenze di tutti i malati. Si dovranno certamente esaminare le cause che hanno portato a tale situazione, anche per evitare che si ripetano. Dal punto di vista clinico, però, è oggi urgente individuare, in modo più razionale possibile, i criteri che possano sostenere una dolorosa quanto necessaria selezione (del resto, triage deriva dal francese trier: «smistare»). In situazioni normali, in cui vi sono risorse sufficienti per tutti, il criterio di accesso alle terapie intensive segue l’ordine temporale di presentazione, il cd. «first come, first served». Ma in una situazione emergenziale di carenza di risorse (cd. shortage) può la scelta basarsi su una priorità di natura meramente cronologica? Non è questo un criterio del tutto casuale, che nasconde una nonscelta e una non-responsabilità?
Proprio per rispondere a questo interrogativo, la Società degli anestesisti e rianimatori si è assunta il non facile onere di indicare come criterio di scelta «la maggior speranza di vita», sintetizzabile in «più probabilità di sopravvivenza» e «più anni di vita salvata», in un’ottica di «massimizzazione dei benefici per il maggior numero delle persone». Se tale parametro si colloca all’interno di una impostazione di natura certamente utilitaristica, insoddisfacente in tempi normali, va detto che nell’emergenza il bilanciamento etico dei diversi interessi in gioco non permette di raggiungere il «bene», dovendosi accontentare di orientare verso il minore fra i due mali. E in situazioni straordinarie come quelle che stiamo vivendo, quale altro criterio si sarebbe potuto indicare? Anche un professore di teologia morale presso la Pontificia Università Lateranense, nella situazione specifica, ha ritenuto umano ed eticamente ragionevole «dare la precedenza a coloro che possono beneficiare di più e in numero maggiore (per i tempi più brevi di occupazione del posto in terapia intensiva)». Va considerato inoltre, che il documento non prevede automatismi, ma suggerisce che le raccomandazioni vengano adattate localmente alla disponibilità di risorse e al numero di richieste di accesso alla terapia intensiva, anche alla luce dei possibili trasferimenti in altri centri. Propone inoltre una rivalutazione quotidiana delle singole situazioni e la possibilità di una seconda opinione per le situazioni particolarmente complesse.
Nello specifico, d’altro canto, il documento della SIAARTI avrebbe potuto dare meno rilievo all’età; ce ne fosse stato il tempo, avrebbe potuto essere discusso prioritariamente con la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici. Avrebbe, forse, potuto proporre alcune concrete modifiche di sistema in grado di migliorare la situazione di partenza, come la flessibilizzazione delle procedure di acquisto dei respiratori. Mi sembra però che, in un’ottica di trasparenza verso la collettività e di responsabilità verso la professione, abbia posto un problema vero e abbia indicato un criterio eticamente fondato per porre le basi di una discussione non facile su decisioni dolorose per tutti.
In regione, come accennato, non siamo arrivati al punto di dover applicare tale criterio. Le responsabilità individuali e la capacità delle istituzioni di sostenere i più esposti faranno la differenza.