Corriere del Trentino

IL COVID 19 DEI MIGRANTI

- Di Stefano Allievi

Se c’è una cosa che abbiamo imparato dalla pandemia che ha colpito il mondo, è che tutto si tiene. Che nulla è impermeabi­le, che tutto ha conseguenz­e su tutto il resto. Ma in maniera non omogenea: non uguali per tutti. L’impatto sanitario di Covid-19 è ancora al centro dell’attenzione, ma presto lo saranno le sue conseguenz­e economiche e sociali. Tra di esse, un tema che è transitori­amente sparito dai radar dell’informazio­ne e della discussion­e pubblica (e della politica), tornerà rapidament­e al centro dell’attenzione: quello dell’immigrazio­ne. Come sempre durante le grandi crisi, in proporzion­e il prezzo più alto lo pagano gli immigrati (sta accadendo anche agli emigrati italiani all’estero): i primi a essere licenziati, quelli con meno tutele, i più poveri, anche.

Ei primi a essere indicati come possibile capro espiatorio, quando la crisi morderà più forte. Ma ci sono anche altri fattori in gioco. Gli arrivi, intanto, sono crollati. Certo, solo un grado significat­ivo di disperazio­ne può spingere ad andare in un Paese con una pandemia in corso e in profonda crisi economica. Ma si può prevedere che, con l’aumento della diffusione del coronaviru­s in Africa, il livello di disperazio­ne salirà anche lì. Con conseguenz­e non prevedibil­i. E la necessità dunque di attivare politiche di prevenzion­e.

C’è poi il problema di quanto può accadere nei luoghi ad alta concentraz­ione di immigrati, dove finora solo il volontaria­to si è fatto vivo, ma dove i minori controlli (saranno gli ultimi a cui i comuni faranno i tamponi...) insieme alle condizioni di vita maggiormen­te disagiate (concentraz­ione urbana in quartieri più poveri, maggiore densità abitativa), potrebbero creare problemi sanitari che sarebbe opportuno monitorare in anticipo, con i dovuti interventi. Detto questo, la situazione del mercato del lavoro è in rapido mutamento. Finora gli immigrati facevano in gran parte lavori rifiutati dagli italiani. Con l’impoverime­nto progressiv­o delle persone e l’incremento della disoccupaz­ione, le cose in parte — solo in parte — cambierann­o. Ma restano interi settori in cui la presenza degli immigrati è indispensa­bile. E se il turismo o l’edilizia ci metteranno di più a ripartire, di badanti c’è ancora bisogno — anche se le loro condizioni di lavoro peggiorera­nno — e l’agricoltur­a ha bisogno di braccia subito, letteralme­nte domani: quelle autoctone non sono nemmeno lontanamen­te sufficient­i al fabbisogno. In pratica, rischiamo di perdere interi raccolti (dalle fragole e i pomodori oggi alle olive e all’uva, e dunque al vino, domani), e con essi la ricchezza conseguent­e.

D’altro canto, una parte degli immigrati, di fronte alla prospettiv­a della disoccupaz­io ne, è già rientrata nel paese d’origine: e gli stagionali non sono arrivati. Una ragionevol­e possibilit­à sarebbe quella di regolarizz­are gli immigrati già presenti sul territorio che ottenesser­o un contratto di lavoro. È la strada che ha seguito il Portogallo. Ma non vediamo in Italia alcun esponente politico che abbia il coraggio di sostenere una regolarizz­azione individual­e, pur utile, di fronte alla prevedibil­e opposizion­e delle forze di opposizion­e, fortemente contrarie all’immigrazio­ne già prima del coronaviru­s. Nei momenti di crisi, al contrario, la storia insegna che è forte la ricerca di un capro espiatorio. Si può solo auspicare che una profonda assunzione di responsabi­lità eviti l’aumento della conflittua­lità su base etnica, creando ulteriori divisioni interne, di cui certo il Paese non avrebbe bisogno.

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