«Salvo per una bugia Ma ho avuto paura»
Marco Frasnelli, 40 anni, di Mezzolombardo «Avevo due focolai ai polmoni e peggioravo Ho avuto paura, poi il miglioramento»
Marco Frasnelli ha sconfitto il coronavirus, non una cosa da poco. Quando si è ammalato aveva compiuto 40 anni da nemmeno un mese: era il 3 marzo e non pensava fosse possibile aver contratto il Covid-19.
La foto che identifica il suo profilo Whatsapp è l’immagine di un fumetto. Si vede un ragazzo suonarle fragorosamente a una molecola cattiva. «Ho vinto io» si legge nelle righe che accompagnano le informazioni. Marco Frasnelli ha sconfitto il coronavirus, non una cosa da poco. Quando si è ammalato aveva compiuto 40 anni da nemmeno un mese: era il 3 marzo e non pensava fosse possibile aver contratto il Covid-19. E invece è stato uno dei primi contagiati di Mezzolombardo. Oggi per fortuna può raccontare dello sguardo di suo figlio di un anno e mezzo quando l’ha visto comparire nel soggiorno di casa una volta sciolto l’isolamento, dopo l’esito negativo del secondo tampone: «Stava bevendo il the sul divano — racconta — mi è corso incontro e ci siamo abbracciati fortissimo». Non si vedevano da oltre venti giorni.
Partiamo dalla fine: come sta adesso?
«Bene, anche se la sensazione di stanchezza è perenne. Ieri sono uscito per fare la spesa e dopo poco mi sembrava di essere sulla luna: sudavo freddo, mi girava la testa. Ma dopo un mese a letto credo sia normale, ho anche perso otto chili».
Quando si è ammalato?
«Era il 3 marzo, la sera è iniziata la febbre. Ma per i primi due o tre giorni non mi sono preoccupato. Il medico mi aveva consigliato la tachipirina perché non presentavo altri sintomi. Già si parlava diffusamente del coronavirus, ma in quei primi giorni non ci ho fatto molto caso, non mi sembrava possibile».
E poi?
«La febbre non accennava a placarsi. Dopo quattro giorni invece che scendere continuava a salire sempre di più. E sono iniziati ad arrivare altri sintomi: dopo la nausea la perdita di gusto e olfatto e la sensazione costante di sentire puzza di bruciato. A quel punto ho chiamato il numero che nel frattempo la Provincia aveva attivato».
E cosa le è stato risposto?
«All’inizio nulla di risolutivo. Per farmi fare un tampone, poi risultato positivo, ho dovuto aspettare fino all’11 marzo. E lo ammetto, ho mentito. Sentivo che se fossi rimasto a casa la situazione si sarebbe aggravata pericolosamente: ho detto di avere la tosse, che mi mancava il fiato e mi sentivo svenire. Il 13 è arrivata un’ambulanza a prelevarmi. E per fortuna: il valore di saturazione nel sangue era al 90% e i focolai di polmonite erano in entrambi i polmoni».
Da pochi giorni era stato annunciato che l’ospedale di Rovereto era stato riservato ai malati di Covid-19: l’hanno portata lì?
«Esatto. La prima visita mi è stata fatta al pronto soccorso dell’ospedale Santa Chiara nel pomeriggio e la sera verso le 22 ero già a Rovereto data la mia situazione: il medico che mi ha visitato disse di sentire “un disastro” dentro al mio torace. La sensazione di pesantezza che provavo sul petto era fortissima, era come se respirassi con una persona seduta sopra la cassa toracica. Mi è stato messo subito l’ossigeno. Nella notte mi avevano già fatto firmare la documentazione per acconsentire alle cure sperimentali, con i farmaci usati contro l’Aids e l’artrite reumatoide».
Quanto è rimasto in ospedale?
«Otto giorni. In camera insieme a me un signore di Canazei, uno di Dimaro, uno di
Borgo Valsugana, tutti più o meno nelle mie stesse condizioni. Essere lì con loro mi ha salvato la vita: poter scambiare due parole, ascoltare insieme un po’ di musica è stato fondamentale. Quando sono arrivato la nostra era la seconda camera occupata, ma in pochi giorni l’ospedale si è riempito».
Ha avuto paura?
«Sì. Ho vissuto due o tre giorni di sconforto totale: stavo male, non vedevo segnali di miglioramento, continuavo a leggere notizie angoscianti di decessi e contagi. Insomma, non è stato facile. Già quando dopo due settimane di febbre continua ho visto che non saliva più mi è sembrato di rinascere. E quando i medici per la prima volta hanno ventilato l’ipotesi del ritorno a casa mi è parso di aver vinto al totocalcio».
La fine di un incubo.
«Sì, anche se la vera liberazione è stata dopo il risultato negativo del secondo tampone: fino a quel momento sono rimasto isolato in una stanza senza poter vedere mia moglie e mio figlio, i pasti me li lasciavano fuori dalla porta. Quando finalmente ho avuto l’esito ho visto la luce».
Come le è sembrata la risposta del sistema sanitario trentino?
«Confusa, forse perché sono stato fra i primi pazienti contagiati. La cosa che mi ha dato più fastidio è stata mentire per avere il primo tampone e far arrivare l’ambulanza: non so dire cosa sarebbe potuto succedere se fossi rimasto a casa ancora dei giorni. Negli ospedali, invece, l’organizzazione è fantastica. A mancare è stato il coordinamento, ma forse adesso c’è».