RITROVARE IL FUTURO
La pandemia da coronavirus ha messo in evidenza che la nostra società ha un problema di prospettiva. O meglio, di futuro. Non è solo l’effetto delle restrizioni a cui siamo sottoposti che ci costringono a vivere l’attimo (in casa) senza intravedere nemmeno una traiettoria di uscita. Ma è prima di tutto nelle modalità con cui essa si è affermata ed espansa, retrocedendo ogni barlume di analisi. La questione centrale è che abbiamo smarrito il senso dell’avvenire e siamo ormai capaci di giudicare solo quello che accade in un tempo ridottissimo. Forse si è modificata la struttura stessa del tempo — è traslitterato in un istante imprendibile e quindi anche statico — ma nessuno si azzarda più a guardare tra le pieghe della società per tirare una parabola di lungo respiro.
Il settore medico ci ha offerto un saggio. Autorevoli virologi, ancora a metà febbraio, allontanavano l’idea della pandemia e parlavano di un fenomeno circoscritto. Ex post, di fronte all’evidenza della realtà, si sono difesi dicendo che le loro affermazioni valgono solo per il breve lasso storico in cui sono pronunciate. Due o tre giorni…Il contagio di un virus, esito di un salto di specie, con un precedente importante (in Cina) e in un sistema di interconnessioni globali era così imprevedibile da smorzare qualsiasi allarme? Le Aziende sanitarie stesse hanno agito per tentativi con piani improntati all’atto dell’emergenza. Abbiamo osservato cento filosofie differenti di utilizzo del tampone — la più giusta si è rivelata il tampone per tutti, a lungo negato anche in sede locale, forse per l’assenza della materia prima — e non si è previsto un piano di tutela per i soggetti vulnerabili e a rischio, se non tardivo. Rsa e pazienti con più patologie sono rimasti così esposti nonostante l’esperienza di Wuhan.
Anche il pensiero da anni si è adagiato nell’analisi del tempo coevo se non nella retrospettiva. Ma il compito dell’intellettuale dovrebbe essere un altro: anticipare e determinare il futuro. Quando s’invoca un «Piano Marshall» per rilanciare l’economia, si propongono paradigmi e simboli del Novecento. Quando Adorno scrisse i «Minima moralia» nel 1951 intravedeva la crisi della borghesia, liquefatta nel consumo, e la crisi profonda della società tardo-capitalista in un periodo in cui i più applaudivano il boom economico. Quando Marshall McLuhan rivoluzionò la tesi sui media e descrisse il «villaggio globale», tra il 1964 e il 1968, era un’epoca in cui il web non era nemmeno un’idea. Quando Debord diede alla luce «La società dello spettacolo» nel 1967, immaginando che lo spettacolo avrebbe sostituito le merci, mirava alle tendenze strutturali che si sarebbero imposte venti o trent’anni più tardi. Quando Lyotard definì «La condizione postmoderna» nel 1979 tracciava una direttrice, complessa e ambigua, in cui siamo ancora immersi e inaugurava l’epoca della moltiplicazione dei «post» che ci ha ristretto nel campo di quelli che succedono a qualcosa evidentemente di più importante. Sono solo esempi. Forse il romanzo conserva ancora, pur nel suo processo di omologazione dettato dall’editing, una propensione a guardare oltre anche se talvolta ciò avviene con il linguaggio apocalittico. Il «contagio» e il «virus» saliranno tra i tòpos più frequentati per un’autoanalisi collettiva dello squarcio in cui siamo caduti e per le esigenze del mercato commerciale.
La politica ha, infine, sotterrato le sue capacità predittive che erano essenzialmente legate alle ideologie, agli ideali, alle utopie. Ed è forse il terreno, essendo in teoria collettivo, dove andrebbero recuperate al più presto. Perché se la politica non può prevedere né disegnare il cambiamento significa che non ha nessun potere di indirizzo, di plasmare l’avvenire. Significa, ancora, che a prevalere saranno le asimmetrie tra forti e deboli, tra egemoni e subalterni. La pandemia da coronavirus lascerà macerie economiche e retaggi sanitari, ma difficilmente ammetterà nuove forme di giustizia e anzi più facilmente premierà chi ha rendite di posizione. Per qualcuno la «fase uno» (sociale) rischia di non finire mai.
Pensare il futuro, dunque, è ricostruire la fisionomia del mondo con caratteri più giusti, è rompere schemi insostenibili o fare in modo che le emergenze improvvise non abbiano il carattere di un maremoto — che semina distruzione — ma di una mareggiata, che prima o poi si ritira svelando le nostre attitudini migliori.