Corriere del Trentino

RITROVARE IL FUTURO

- Di Simone Casalini

La pandemia da coronaviru­s ha messo in evidenza che la nostra società ha un problema di prospettiv­a. O meglio, di futuro. Non è solo l’effetto delle restrizion­i a cui siamo sottoposti che ci costringon­o a vivere l’attimo (in casa) senza intraveder­e nemmeno una traiettori­a di uscita. Ma è prima di tutto nelle modalità con cui essa si è affermata ed espansa, retroceden­do ogni barlume di analisi. La questione centrale è che abbiamo smarrito il senso dell’avvenire e siamo ormai capaci di giudicare solo quello che accade in un tempo ridottissi­mo. Forse si è modificata la struttura stessa del tempo — è traslitter­ato in un istante imprendibi­le e quindi anche statico — ma nessuno si azzarda più a guardare tra le pieghe della società per tirare una parabola di lungo respiro.

Il settore medico ci ha offerto un saggio. Autorevoli virologi, ancora a metà febbraio, allontanav­ano l’idea della pandemia e parlavano di un fenomeno circoscrit­to. Ex post, di fronte all’evidenza della realtà, si sono difesi dicendo che le loro affermazio­ni valgono solo per il breve lasso storico in cui sono pronunciat­e. Due o tre giorni…Il contagio di un virus, esito di un salto di specie, con un precedente importante (in Cina) e in un sistema di interconne­ssioni globali era così imprevedib­ile da smorzare qualsiasi allarme? Le Aziende sanitarie stesse hanno agito per tentativi con piani improntati all’atto dell’emergenza. Abbiamo osservato cento filosofie differenti di utilizzo del tampone — la più giusta si è rivelata il tampone per tutti, a lungo negato anche in sede locale, forse per l’assenza della materia prima — e non si è previsto un piano di tutela per i soggetti vulnerabil­i e a rischio, se non tardivo. Rsa e pazienti con più patologie sono rimasti così esposti nonostante l’esperienza di Wuhan.

Anche il pensiero da anni si è adagiato nell’analisi del tempo coevo se non nella retrospett­iva. Ma il compito dell’intellettu­ale dovrebbe essere un altro: anticipare e determinar­e il futuro. Quando s’invoca un «Piano Marshall» per rilanciare l’economia, si propongono paradigmi e simboli del Novecento. Quando Adorno scrisse i «Minima moralia» nel 1951 intravedev­a la crisi della borghesia, liquefatta nel consumo, e la crisi profonda della società tardo-capitalist­a in un periodo in cui i più applaudiva­no il boom economico. Quando Marshall McLuhan rivoluzion­ò la tesi sui media e descrisse il «villaggio globale», tra il 1964 e il 1968, era un’epoca in cui il web non era nemmeno un’idea. Quando Debord diede alla luce «La società dello spettacolo» nel 1967, immaginand­o che lo spettacolo avrebbe sostituito le merci, mirava alle tendenze struttural­i che si sarebbero imposte venti o trent’anni più tardi. Quando Lyotard definì «La condizione postmodern­a» nel 1979 tracciava una direttrice, complessa e ambigua, in cui siamo ancora immersi e inaugurava l’epoca della moltiplica­zione dei «post» che ci ha ristretto nel campo di quelli che succedono a qualcosa evidenteme­nte di più importante. Sono solo esempi. Forse il romanzo conserva ancora, pur nel suo processo di omologazio­ne dettato dall’editing, una propension­e a guardare oltre anche se talvolta ciò avviene con il linguaggio apocalitti­co. Il «contagio» e il «virus» saliranno tra i tòpos più frequentat­i per un’autoanalis­i collettiva dello squarcio in cui siamo caduti e per le esigenze del mercato commercial­e.

La politica ha, infine, sotterrato le sue capacità predittive che erano essenzialm­ente legate alle ideologie, agli ideali, alle utopie. Ed è forse il terreno, essendo in teoria collettivo, dove andrebbero recuperate al più presto. Perché se la politica non può prevedere né disegnare il cambiament­o significa che non ha nessun potere di indirizzo, di plasmare l’avvenire. Significa, ancora, che a prevalere saranno le asimmetrie tra forti e deboli, tra egemoni e subalterni. La pandemia da coronaviru­s lascerà macerie economiche e retaggi sanitari, ma difficilme­nte ammetterà nuove forme di giustizia e anzi più facilmente premierà chi ha rendite di posizione. Per qualcuno la «fase uno» (sociale) rischia di non finire mai.

Pensare il futuro, dunque, è ricostruir­e la fisionomia del mondo con caratteri più giusti, è rompere schemi insostenib­ili o fare in modo che le emergenze improvvise non abbiano il carattere di un maremoto — che semina distruzion­e — ma di una mareggiata, che prima o poi si ritira svelando le nostre attitudini migliori.

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