Virus e metafora bellica, due battaglie agli antipodi
La guerra produce schianti, emorragie, distruzione mentre la pandemia è silenziosa e le lacerazioni avvengono interiormente
In un articolo recentemente comparso sul sito di Internazionale, l’esperta di comunicazione Annamaria Testa ha giustamente richiamato i pericoli riguardanti l’incorniciamento (framing) di determinati eventi mediante il ricorso a metafore fuorvianti. Nell’affrontare per esempio l’evento nel quale siamo tutti da settimane immersi — l’epidemia dovuta alla diffusione del virus Sars-Cov-2 —, i media si sono abbandonati ad un uso piuttosto disinvolto di riferimenti marziali: «L’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra» (Daniele Cassandro). Eppure, possiamo veramente identificare un’entità microscopica completamente priva di volontà alla stregua di un nemico? È chiaro che, facendolo, attiviamo contemporaneamente una strategia, adottiamo un certo atteggiamento mentale, e cominciamo a mobilitare risorse guidate non più dalla specificità di ciò che dovremmo contrastare, ma da astrazioni che derivano dai contesti di provenienza della metaforologia prescelta.
Chi si occupa prevalentemente di metafore, lo sappiamo, sono i poeti. Sono loro, infatti, che abitano il linguaggio con l’orecchio sempre teso a percepire echi e rimandi tra una parola e l’altra, quindi anche tra concetti afferenti a campi semantici diversi. Basterebbe osservare il modo con il quale determinati poeti hanno parlato della guerra, ricercare nella tessitura del loro linguaggio quelle epifanie di senso dischiuse da determinate immagini per verificare se potrebbero applicarsi anche alla nostra situazione. Preleverò tre esempi tratti da alcune poesie inerenti il primo conflitto bellico mondiale e raccolte nel volume «La guerra d’Europa – 1914/1918 – raccontata dai poeti» (nottetempo 2014). Che m’importa se il Belgio / è diventato il cimitero delle nazioni? […] Oh una Lovanio tutti i giorni / per frutta delle mie colazioni! (Corrado Govoni); Il cielo è caduto a terra in pezzi / E non c’è fiore / che sopravvive intatto. / La terra odora del sangue, / schizzato dal cielo. / La ferita è grande / e non guarirà (Theo van Doesburg); Un caffè si spaccò il muso e sanguinò / imporporando un grido bestiale: / Infettiamo col sangue i giochi del Reno! / Il tuono dei cannoni sul marmo di Roma! (Vladimir Majakovskij). Sono esempi scelti quasi a caso, ma gli elementi trovati si possono riscontrare in moltissime poesie di questa raccolta. Cosa prevale qui? Abbiamo entità contrapposte, corrispondenti a nomi di nazioni, o di città, ci sono verbi che segnalano la presenza di schianti, frastuoni, emorragie, e un senso di completa distruzione. Soprattutto: ci sono comunità lacerate da divisioni che le sollecitano sia dall’esterno che dall’interno.
Se ci volgiamo adesso alla scena che si apre ai nostri occhi osservando la «battaglia» (scrivo la parola tra virgolette, per porla in questione) che stiamo intraprendendo contro la diffusione del virus non vediamo nulla di quanto elencato in precedenza. Le città sono silenziose, l’animazione è contenuta al minimo, le lacerazioni avvengono interiormente. Come ha scritto Paolo Giordano («Nel Contagio», Einaudi), «l’epidemia ci incoraggia a pensarci come appartenenti a una collettività. Ci obbliga a uno sforzo di fantasia che in un regime normale non siamo abituati a compiere: vederci inestricabilmente connessi agli altri e tenere in conto la loro presenza nelle nostre scelte individuali. Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere una comunità». Ora, com’è possibile istituire il framing per l’istituzione di tale comunità solidale se ci affidiamo ad un vocabolario di per sé divisivo come quello orientato da metafore bellicistiche e da una retorica guerresca?
La difficile sfida sollecitata dall’emergenza sanitaria non può essere affrontata ricorrendo a logiche nazionalistiche e conflittuali, soggiacenti ad un contesto in cui eserciti pesantemente armati si scagliano gli uni contro gli altri. Abbiamo bisogno, al contrario, di allestire parole e concetti informati a logiche universalistiche adeguate a prevenire rischi globali. Per questo non dovremmo indugiare in termini dicotomici, muscolari e basati sulla contrapposizione — suggerisce ancora Annamaria Testa nell’articolo citato all’inizio —, ma richiedere maggiore inclusione, condivisione e cura. L’opposizione al virus non è una guerra “perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare». Non facendolo, corriamo il rischio di inclinare la nostra società verso il dominio di un governo autoritario come unica possibilità d’intervento, e di lasciare sul campo non solo le vittime della malattia, ma anche molti di quei diritti ai quali credevamo di non dover mai più rinunciare.