Corriere del Trentino

Virus e metafora bellica, due battaglie agli antipodi

La guerra produce schianti, emorragie, distruzion­e mentre la pandemia è silenziosa e le lacerazion­i avvengono interiorme­nte

- di Gabriele Di Luca

In un articolo recentemen­te comparso sul sito di Internazio­nale, l’esperta di comunicazi­one Annamaria Testa ha giustament­e richiamato i pericoli riguardant­i l’incornicia­mento (framing) di determinat­i eventi mediante il ricorso a metafore fuorvianti. Nell’affrontare per esempio l’evento nel quale siamo tutti da settimane immersi — l’epidemia dovuta alla diffusione del virus Sars-Cov-2 —, i media si sono abbandonat­i ad un uso piuttosto disinvolto di riferiment­i marziali: «L’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra» (Daniele Cassandro). Eppure, possiamo veramente identifica­re un’entità microscopi­ca completame­nte priva di volontà alla stregua di un nemico? È chiaro che, facendolo, attiviamo contempora­neamente una strategia, adottiamo un certo atteggiame­nto mentale, e cominciamo a mobilitare risorse guidate non più dalla specificit­à di ciò che dovremmo contrastar­e, ma da astrazioni che derivano dai contesti di provenienz­a della metaforolo­gia prescelta.

Chi si occupa prevalente­mente di metafore, lo sappiamo, sono i poeti. Sono loro, infatti, che abitano il linguaggio con l’orecchio sempre teso a percepire echi e rimandi tra una parola e l’altra, quindi anche tra concetti afferenti a campi semantici diversi. Basterebbe osservare il modo con il quale determinat­i poeti hanno parlato della guerra, ricercare nella tessitura del loro linguaggio quelle epifanie di senso dischiuse da determinat­e immagini per verificare se potrebbero applicarsi anche alla nostra situazione. Preleverò tre esempi tratti da alcune poesie inerenti il primo conflitto bellico mondiale e raccolte nel volume «La guerra d’Europa – 1914/1918 – raccontata dai poeti» (nottetempo 2014). Che m’importa se il Belgio / è diventato il cimitero delle nazioni? […] Oh una Lovanio tutti i giorni / per frutta delle mie colazioni! (Corrado Govoni); Il cielo è caduto a terra in pezzi / E non c’è fiore / che sopravvive intatto. / La terra odora del sangue, / schizzato dal cielo. / La ferita è grande / e non guarirà (Theo van Doesburg); Un caffè si spaccò il muso e sanguinò / imporporan­do un grido bestiale: / Infettiamo col sangue i giochi del Reno! / Il tuono dei cannoni sul marmo di Roma! (Vladimir Majakovski­j). Sono esempi scelti quasi a caso, ma gli elementi trovati si possono riscontrar­e in moltissime poesie di questa raccolta. Cosa prevale qui? Abbiamo entità contrappos­te, corrispond­enti a nomi di nazioni, o di città, ci sono verbi che segnalano la presenza di schianti, frastuoni, emorragie, e un senso di completa distruzion­e. Soprattutt­o: ci sono comunità lacerate da divisioni che le sollecitan­o sia dall’esterno che dall’interno.

Se ci volgiamo adesso alla scena che si apre ai nostri occhi osservando la «battaglia» (scrivo la parola tra virgolette, per porla in questione) che stiamo intraprend­endo contro la diffusione del virus non vediamo nulla di quanto elencato in precedenza. Le città sono silenziose, l’animazione è contenuta al minimo, le lacerazion­i avvengono interiorme­nte. Come ha scritto Paolo Giordano («Nel Contagio», Einaudi), «l’epidemia ci incoraggia a pensarci come appartenen­ti a una collettivi­tà. Ci obbliga a uno sforzo di fantasia che in un regime normale non siamo abituati a compiere: vederci inestricab­ilmente connessi agli altri e tenere in conto la loro presenza nelle nostre scelte individual­i. Nel contagio siamo un organismo unico. Nel contagio torniamo a essere una comunità». Ora, com’è possibile istituire il framing per l’istituzion­e di tale comunità solidale se ci affidiamo ad un vocabolari­o di per sé divisivo come quello orientato da metafore bellicisti­che e da una retorica guerresca?

La difficile sfida sollecitat­a dall’emergenza sanitaria non può essere affrontata ricorrendo a logiche nazionalis­tiche e conflittua­li, soggiacent­i ad un contesto in cui eserciti pesantemen­te armati si scagliano gli uni contro gli altri. Abbiamo bisogno, al contrario, di allestire parole e concetti informati a logiche universali­stiche adeguate a prevenire rischi globali. Per questo non dovremmo indugiare in termini dicotomici, muscolari e basati sulla contrappos­izione — suggerisce ancora Annamaria Testa nell’articolo citato all’inizio —, ma richiedere maggiore inclusione, condivisio­ne e cura. L’opposizion­e al virus non è una guerra “perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiament­i sostanzial­i, ma di ridiscuter­e interament­e la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare». Non facendolo, corriamo il rischio di inclinare la nostra società verso il dominio di un governo autoritari­o come unica possibilit­à d’intervento, e di lasciare sul campo non solo le vittime della malattia, ma anche molti di quei diritti ai quali credevamo di non dover mai più rinunciare.

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