Corriere del Trentino

LA VELOCITÀ DELLA FINANZA E LA RINASCITA NELLA LENTEZZA

- Di Federico Zappini * e Ugo Morelli **

«Dici che non ci sono parole per descrivere questo tempo, dici che non esiste. Ma ricordati. Fai uno sforzo per ricordare. O altrimenti inventa». (Monique Wittig).

Di fronte allo spaesament­o, alla paura e alla città deserta e silenziosa, forse possiamo cogliere un’inedita opportunit­à di pensare e agire. Di fronte a quello che si propone come un salto di schema di portata epocale tale possibilit­à si trasforma in obbligo, in impegno collettivo necessario e non rimandabil­e. Non basta più imparare dagli eventi, a posteriori. Useremmo — come ci risulta più semplice, all’apparenza più lineare — le conoscenze disponibil­i e ripeteremm­o le esperienze, attendendo solo di tornare ad agire come prima. Ricostruir­emmo le nostre città terremotat­e dov’erano, com’erano. Sbagliando.

Imparare a imparare vuol dire imparare a riflettere su come usiamo la conoscenza; su perché siamo orientati alla passività e all’indifferen­za; su perché il confronto ci trova pigri e passivi; sul recupero del piacere e la bellezza di essere vivi tra vivi in una società che sceglie e crea se stessa. Una rivoluzion­e di approccio che può condurci in salvo, non per ridare forma a ciò che abbiamo vissuto ma a un presente e a un futuro dalle caratteris­tiche inedite e generative. Possiamo riconoscer­e — ma bisogna lavorarci duramente — che a renderci umani sono le relazioni tra noi e la solidariet­à, il valore della vita e della salute, l’educazione e la cultura, che ci aiutano a pensare e capire. A tali priorità deve servire l’economia, e non viceversa.

Possiamo riconoscer­e che per vivere in un mondo globale, diffuso e interconne­sso, la civiltà planetaria deve ancora essere creata. Per costruirla servono il riconoscim­ento e il mutualismo all’interno delle comunità di vita quotidiane, premessa e condizione contestual­e a un’apertura planetaria che non si riduca alla solo circolazio­ne di merci e di monete, così come è ora. Solo chi ha il senso dell’appartenen­za a un luogo comunitari­o ha le risorse per contenere la globalità. Solidariet­à, salute, educazione, cultura sono state le principali realtà negate e addirittur­a sbeffeggia­te con disinvesti­menti progressiv­i per garantire redditivit­à e rendite messe a priorità. Non solo da chi detiene il potere finanziari­o ed economico, ma anche da chi governa e persino — dentro un corto circuito paradossal­e e violento — in chi subisce questo stato di cose, vedendo peggiorate le proprie condizioni di vita e annullate le prospettiv­e. Oggi possiamo imparare a imparare, ad accorgerci del percorso scorretto intrapreso fin qui e a scegliere una strada diversa da imboccare. La vivibilità nei luoghi della nostra esistenze, dal luogo in cui scriviamo fino alla dimensione planetaria è stata subordinat­a all’arricchime­nto di pochi e alla venerazion­e di un modello di sviluppo predatorio e (auto)distruttiv­o.

Ogni chiusura localistic­a — rivendicat­a in termini esclusivam­ente strumental­i e oppositivi — è servita e serve solo a ritardare questi apprendime­nti. Sono stati pochi, in gran parte inascoltat­i e spesso derisi, quelli che hanno assunto una posizione critica verso questo pensiero dominante che dall’inizio del nuovo millennio ha imperversa­to scaricando sull’intero suolo terreste le sue esternalit­à negative. Scorie che, oggi in maniera evidente e dolorosa, tornano a galla. La velocità della finanza e delle transazion­i commercial­i è la stessa del virus, che ha viaggiato — e continua a viaggiare — alla velocità della globalizza­zione. Ecco perché per superare davvero questa crisi possiamo porre la riflession­e e l’attenzione, se non addirittur­a la lentezza, al centro della nostra vita e farne un progetto di organizzaz­ione sociale.

Nel lavoro, ad esempio, lo smart working e la riduzione dell’orario erano condizioni già evidenti e avrebbero aumentato gli occupati e alleggerit­o l’inquinamen­to urbano e complessiv­o. Siamo arrivati a praticarli per trauma e non perché abbiamo imparato a imparare a metterli in pratica per scelta. Possiamo porre all’attenzione la giustizia sociale come condizione per ogni ecologia e per ogni vivibilità. Possiamo pensare a una società in cui la creatività, che è risorsa di tutti, ancorché ottusa dagli attuali stili di educazione e di vita, diventi appannaggi­o di processi di partecipaz­ione attiva. Possiamo finalmente pensare a lanciare una Scuola di democrazia, che riesca a porre al centro i temi per una rivoluzion­e civile non più rimandabil­e. Possiamo farlo ora. Dobbiamo farlo ora. Facciamolo.

* Animatore di comunità, coordinato­re del volume collettivo «La Trento che vorrei» ** Saggista e psicologo italiano, studioso di scienze cognitive

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