Quell’amore «a pelle» «Il tatuaggio? È dialogo con il corpo»
Eliseo Franchini: preferisco l’astratto, dà più emozione
Il tatuaggio come opera d’arte, come performance nata dalla relazione con la persona: a Eliseo Franchini non importa solo del «bello», spinge oltre. Tatua da 12 anni, dipinge da sempre e oggi è riconosciuto come uno dei migliori italiani nella tecnica watercolor. La sua base è a Pinzolo in uno spazio all’avanguardia anche nell’idea: Hirsch Concept Store coniuga il mondo del tatuaggio con quello dell’abbigliamento, dell’artigianato, dell’oggettistica,
della fotografia e dei dipinti. Quando hai incontrato il mondo del tatuaggio?
«Al termine di un’esperienza come illustratore creativo sono diventato maestro di sci: l’inverno lavoravo sulla neve e l’estate facevo altro. Così nelnel 2007 mi capitò di collaborare con uno studio di tatuaggi vicino a Rimini, all’inizio disegnavo per loro e poi cominciai a tatuare. È un lavoro che ti fa capire subito se può fare per te: in fondo vai a creare una lesione su una persona e di mezzo c’è molto più che un’immagine».
E tu come ti senti nel sapere che queste persone porteranno per sempre una tua opera sulla pelle? «Non ci ho mai pensato tanto e negli anni le percezioni sono cambiate. Mi colpisce sapere della morte di qualcuno che ho tatuato, come se sentissi che l’immagine creata se ne sia andata con lei».
Oggi sei uno dei migliori nel watercolor. Hai sempre tatuato così o il tuo stile è cambiato negli anni?
«Ho iniziato con una tecnica
Ora aderisci a una scuola in particolare?
«No, sono uno skater e negli ultimi anni mi sono isolato dal mondo del tatuaggio che ha preso una via che non condivido. È diventato molto commerciale e pieno di interessi economici, quasi come se le persone stessero diventando dei supporti. L’immagine creata, per me non può invece prescindere dallo scambio con l’altro, che spesso trasmette attraverso il corpo e la gestualità ciò che vuole».
E infatti il tuo stile sembrerebbe comporsi di un orizzonte concettuale oltre che estetico.
«Esatto. Parte dei miei lavori sono prettamente astratti e per me sono questi i più significativi nonostante a prima vista possano non essere compresi. Hanno però un lato emozionale. Si pensi alla nascita dell’action painting con Pollock…in quel momento non ci si soffermò sull’immagine ma sull’emozione. Sono lavori che nascono guardando la persona e seguendo le linee anatomiche del corpo. L’opera non è il tatuaggio ma nella mia visione il corpo stesso fa parte della performance».
Ora hai nominato Pollock. Hai altri riferimenti nel campo dell’arte?
«Direi gli anni ’60 - ’70, ma anche tutto il percorso intrapreso da Kandinskij per arrivare a ciò che lo ha reso famoso. E poi ancora gli avanguardisti del primo ‘90, mi riconosco nel percorso di distacco dall’immagine realista. È un’evoluzione che credo nasca dalla volontà di vedere oltre la forma, io ho sempre sentito questo».
C’è stata un’evoluzione della moda del tatuaggio rispetto alle richieste?
«Indubbiamente. Anche se lavorando da 12 anni si è creata una fidelizzazione dei clienti, che spesso sono familiari e amici di chi si è già tatuato da me. Siamo però da immagini e la fantasia ha un limite: è inevitabile che qualcosa si ripeta».
Quanti tatuaggi hai fatto finora?
«Tra i nove e i dieci mila».
La critica
Questa attività è ormai troppo commerciale, come se le persone stessero diventando dei semplici supporti