«Da fuori non si può capire cosa capita in rianimazione Lottiamo con i pazienti»
ROVERETO «Da fuori non si può capire quello che stiamo affrontando giorno dopo giorno». Parla così Giulio, 28 anni, infermiere nel reparto di rianimazione all’Ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto, il Centro Covid del Trentino dove si sono riversati i casi più gravi di persone affette da coronavirus. «Non ce lo aspettavamo — continua — è successo tutto così in fretta».
Come vi siete organizzati per accogliere un numero sempre più elevato di persone che necessitano della rianimazione in questo periodo?
«Prima dell’emergenza avevamo otto posti in terapia intensiva, con la possibilità di aggiungere il nono in caso di emergenza. Come personale eravamo in quattro infermieri, uno ogni due pazienti, distribudove iti su tre turni. Quando ci hanno comunicato che saremmo diventati Centro coronavirus abbiamo cominciato ad organizzarci. È stato difficile stare dietro al ritmo crescente di pazienti. Qualche giorno dopo aver avuto il primo caso eravamo già a quattro ricoverati e dopo una settimana a tredici. Nel nostro reparto siamo riusciti a farne stare dieci, in surplus ma ancora gestibili al meglio. Gli altri pazienti che continuavano ad arrivare li abbiamo messi nelle sale operatorie che causa emergenza sono state chiuse e sono quindi diventate così delle piccole rianimazioni a sé stanti. Ad oggi abbiamo in tutto 25 pazienti con un’età media sui 6065 anni, e per fortuna ancora qualche posto libero».
Per aiutarvi in questa situazione sono arrivati nuovi infermieri e medici?
«Sì, sono stati richiamati medici che erano andati in pensione o avevano cambiato posto di lavoro, mentre altri ne sono arrivati da fuori provincia. Adesso siamo divisi nelle due rianimazioni: quella classica, per così dire, dove lavoro io, e il blocco operatorio ora adibito, come dicevo, a terapia intensiva. Da quattro infermieri per turno che eravamo prima, adesso siamo il triplo. Capirà quindi che non è facile riuscire a conoscere tutti. I medici, invece, che prima erano due a turno, ora sono cinque».
Tutto è cambiato: eravamo 4 infermieri, ora siamo il triplo. Abbiamo 25 pazienti la cui età media è di 60-65 anni. Non siamo eroi, ci mettiamo umanità
Una domanda che a mio avviso non è secondaria: come si svolge la comunicazione con i familiari dei ricoverati?
«Il nostro primario ha allestito assieme ai tecnici informatici dell’Azienda una piattaforma i familiari dei pazienti ricevono giornalmente foto e informazioni dai medici. Inoltre, uno dei medici si prende qualche ora di tempo al giorno per fare un giro di chiamate e spiegare ai parenti come si sta evolvendo la situazione dei loro congiunti».
In televisione appaiono medici e infermieri chiusi in tute e maschere che fanno una certa impressione a vederli. Com’è la vostra giornata di lavoro in rianimazione?
«La prima fase è appunto quella della vestizione. Si arriva 15 minuti prima rispetto all’orario pre-emergenza, perché vestirsi è un’operazione lunga e chi aspetta il cambio per uscire, non vede l’ora di poterlo fare. Tutti quelli che cominciano il turno si vestono assieme, così da controllarsi a vicenda che sia tutto a posto. Siamo completamente coperti, dalla testa ai piedi e non è piacevole. Ognuno poi entra nella zona dove lavora e inizia ad assistere i propri pazienti. Questo lavoro dà tanta responsabilità però non mi sento un eroe. Io svolgo il mio lavoro al meglio come sempre, cercando di metterci passione e umanità perché i pazienti sentano che stiamo lottando assieme a loro».