«Il mio film sul dolore omaggio al Martinsbrunn»
Il regista Bisatti ha girato a Merano «Al Dio ignoto», visibile su Chili
mancava sempre l’elemento centrale, tra l’altro molto chiaro nella filosofia delle cure palliative: il rapporto con la natura, e dunque col sacro, la trascendenza, che si rivela a contatto con lo spirito naturale. Dà la possibilità alle persone di essere sole senza esserlo veramente, di avere il conforto di piante straordinarie». Da questa scelta poi è discesa l’idea di girare in Alto Adige: «È stata una sorpresa dietro l’altra - sono rimasto folgorato da una mostra sui bambini ritratti a Castel Tirolo. Qui ho girato una scena un anno prima di cominciare le vere riprese. Era una mostra sulla storia della vita che verrà, mi pareva perfetta. In questo senso è molto legato alla storia del film: nella vita di Lucia resta il figlio che diventa un “problema” per la madre».
Non una scelta dettata - come si vede in molto cinema degli ultimi anni - dalla necessità economica di ritrarre l’Alto Adige per avere i finanziamenti, ma una necessità narrativa, che si è riverberata nella scelta di alcune comparse, scelte tra il personale della struttura: «Mi ha colpito l’efficienza e la generosità delle persone - spiega ancora il regista -tutto nasce dalla carità: è un esempio di spiritualità dichiarato. Per me è importante, perché i fondamenti della cultura occidentale sono legati al Cristianesimo, che ha valori eversivi rispetto ai valori consumistici nei quale siamo immersi. Mi sono preso un rischio perché l’ambiente del cinema è profondamente laico, è la mia sfida, anche perché ho fatto recitare Nietzsche, la cui poesia dà il titolo al film, dentro una chiesa». Poi ci sono stati altri sopralluoghi e in uno di questi Bisatti ha conosciuto Sandro Forcato, inventore del circolo «La Comune», «che ha portato a bolzano grandi del teatro contemporaneo - spiega ancora il regista - mi hanno dato una mano a organizzare il film e a trovare le comparse. Come Erica, straordinaria signora che interpreta una delle pazienti. O Manfred, che è infermiere nell’hospice, o tutto il gruppo clinico della struttura, o il primario della sezione cure palliative. Poi mi ha interessato molto il bilinguismo e il Comune di Merano ci ha aiutato, tanto che molto del girato si è trasformato in 12 documentari di promozione turistica del luogo». Il progetto parte da lontanto, con 5 annidi lavoro, e si è trovato a maturare in un momento drammatico per il cinema.
«Dovevamo presentarlo a Merano e Bolzano - racconta il regista - purtroppo non è stato possibile per il lockdown, ma volevo che uscisse a tutti i costi. È un film impegnativo, perché parla di morte in un momento in cui è difficile parlarne, ma la morte fa parte della vita: bisogna arrivarci dopo aver vissuto, come dice Gabriel nel film. È un percorso dell’umanità. Piano piano arriveremo a dire: “abbiamo vissuto e possiamo andare”».