GLI AMICI SCONFITTI
Con il termine del confinamento le relazioni sociali hanno potuto riaffacciarsi nella vita delle persone. L’idea che le istituzioni pubbliche hanno però della socialità è rimasta legata al concetto di «famiglia», tradizionale o rivista in base alle nuove grammatiche sociali. Il decreto del presidente del consiglio ha infatti previsto la possibilità di incontrare — osservando i criteri di sicurezza — i «congiunti». Con questa categoria, peraltro nemmeno contemplata dal codice civile (nel codice penale si fa invece riferimento ai «prossimi congiunti»), il premier Conte ha inteso riferirsi ai coniugi, ai partner conviventi, agli sposi di un’unione civile, ai fidanzati, ai parenti fino al sesto grado (i figli dei cugini tra loro) e agli affini fino al quarto grado (per esempio, i cugini del coniuge).
È importante poter incrociare lo sguardo con il proprio genitore o rifondere i propri sentimenti con un nonno o un nipote. Ma la nostra esistenza transita, soprattutto, attraverso l’amicizia. Da Aristotele in poi l’amicizia viene considerata come la primaria fonte di felicità. Per un numero non irrilevante di persone che risiedono nelle due Autonomie speciali l’amicizia è anche l’unico legame sociale attivo, l’unica rete di protezione.
Me lo ha ricordato una cara amica, docente universitaria di lingua francese, in una mail in cui lamenta il suo isolamento, la «doppia pena» che l’ha colpita: «Benissimo che per riprendere i contatti umani/sociali si siano individuati i congiunti. Mi chiedo, tuttavia, qualcuno ha pensato agli stranieri in Italia? A tutte quelle persone che vivono qui, contribuiscono a fare andare avanti l’economia, a diffondere saperi. Uomini e donne che in questo periodo difficile si sono impegnati come molti italiani per cercare di garantire al Paese una pseudo normalità. Persone che da sempre pagano le tasse come tutti. Persone che, anche se risaliamo al sesto grado di parentela, cugini in regione non riescono di sicuro a trovarne la minima traccia perché la loro famiglia, gli affetti “stabili” si trovano lontani. Dopo due mesi di “restiamo a casa” a queste persone nessuno sembra avere pensato. Eppure anche per loro ritrovare un legame sociale è fondamentale, magari potendo vedere un amico o un collega. Penso anche agli stranieri meno fortunati perché in situazioni di precarietà che allo stesso modo conoscono come unico legame umano, non quello della famiglia, spesso rimasta in Paesi lontani, ma quello di affetti provenienti da conoscenti o amici. Un po’ di calore dopo un periodo così difficile, è chiedere troppo?».
Il suo punto di vista approfondisce la situazione in cui si collocano migliaia di migranti in regione (europei, non europei o semplicemente provenienti da altre realtà locali) che osservano i loro diritti assottigliarsi e che si approssimano ancora di più alla condizione di «straniero», ossia — seguendo l’etimologia — di «estraneo». Un ulteriore esempio della pandemia come moltiplicatore di disuguaglianze che ha aggiunto, ai campi di esclusione già conosciuti (economico, scolastico, sociale), anche quello affettivo. Forse uscire dal famiglia-centrismo, apprezzando l’eterogeneità della nostra società, sarebbe utile per ampliare — in sicurezza — il nostro spazio sociale. E per preservare quei luoghi di interazione tra culture differenti, incubatori a loro volta di nuove culture, che l’isolamento prima e il distanziamento ora arrestano o rallentano, facendoci precipitare nel vortice del racconto unico, della Storia universale.
Guardando alla legislazione in Europa emergono altri orientamenti. In Belgio, per esempio, hanno consentito a ciascun cittadino di indicare quattro persone con cui potersi incontrare a prescindere dai vincoli parentali. È un modo forse più veritiero di ricostruire la dimensione affettiva di ciascuno di noi che non può essere determinata dallo Stato. Tra le mille disposizioni degli ultimi mesi, questa avrebbe il senso di proteggere le relazioni umane e di continuare a coltivarle all’interno di un discorso di attenzione, cura e uguaglianza.