«Rossetto e niente tuta»
«Con la pandemia e il lockdown si rischia l’abbruttimento», spiega la fashion curator Luisa Frisa che mette al bando la tuta. «Sì invece ai tacchi e al rossetto», afferma.
Santo Karl Lagerfeld,
TRENTO aiutaci tu. Se il venerato stilista amava ripetere che i «pantaloni della tuta sono un segno di sconfitta», aggiungendo che uscire con la tuta denuncia la perdita «del controllo sulla vostra vita», nulla di più facile che a domanda precisa fatta a Maria Luisa Frisa, critica e fashion curator, direttore del Corso di Laura in Design della moda all’Università Iuav di Venezia, la risposta non possa essere che una sola: «Con la tuta mai».
Inutile nascondersi: metà degli italiani hanno passato questi mesi in tuta. L’altra metà in pigiama. Azzerate le occasioni di uscita. Arrendiamoci: la vittoria della tuta.
«Tutti abbiamo visto la foto di Anna Wintour (la donna più temuta e potente della moda, ndr) con i pantaloni della tuta e la maglia marinière al tavolo di casa sua: quella foto è molto interessante e ha fatto dire a tutti quanti: “Ma se la Wintour si mette in tuta, ce la possiamo mettere anche noi...”. Sicuramente abbiamo sempre inteso la differenza tra comodità casalinga, dove stavamo poco, e l’idea di un vestire rilassato identificato con la tuta. Io credo invece che, proprio perché c’è il rischio abbrutimento e le donne hanno rinunciato perfino a truccarsi, corriamo un pericolo. È la deriva fantozziana: siccome non mi vedono gli altri, allora è rutto libero…».
Ma lei, la tuta la usa?
«Non ne metto una dall’età di 16 anni, come le scarpe da ginnastica. Vestirmi per bene mi aiuta ad affrontare la giornata con maggior piglio: il modo di vestirsi si riflette nel nostro atteggiamento. Poi c’è anche un dovere nei confronti delle persone con cui stiamo comunicando con le diverse piattaforme. In questi giorni faccio lezione agli studenti da casa e mi è capitato di fare riunioni con persone che sembravano appena uscite dal letto e Maria Luisa Frisa, critica e fashion curator, è direttrice del Corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali all’Università Iuav di Venezia. È presidente di Misa (Associazione Italiana degli Studi di Moda) forse lo erano: non va bene».
Va bene, niente tuta. Tacco 12 per fare la spesa?
«La nostra socialità in questo periodo è stata consumata nei momenti della spesa, l’acquisto del giornale, la fila al supermercato dove osservi gli altri. Sono momenti di socialità e sollievo, nel senso che incontri persone che conosci, che non senti da un po’ di tempo. Quando esci è un momento in cui ti presenti al mondo: devi piacerti. Perché siamo sempre lì: il problema non è piacere agli altri, ma a sé stessi. Dunque anche tacco».
Lei è per le mascherine personalizzate?
«Io non amo quel genere di cose, sono per la funzionalità, sono per la chirurgica che si butta via. Ora ho trovato una mascherina che ha una sorta di becco, che mi permette di avere il rossetto sotto, perché non tocca la bocca. A quel punto ne ho comprato una serie. Mi dava molto fastidio che non potessi mettere il rossetto».
Con l’emergenza e il lockdown c’è il rischio abbruttimento. È una deriva fantozziana