«Le prove con il coro e il Barolo, caro Ezio mi manchi già»
Ezio carissimo, mi mancano già, di te, un sacco di cose: quello sguardo esigente ed insieme generoso, capace di chinarsi sugli ultimi e di bastonare i presuntosi; la premura gentile verso i tuoi orchestrali.
Ezio carissimo, mi hanno chiesto un pezzo su di te: ed io stupidamente ho detto di sì. Ed ora vedi, so scrivere ben poco, anche se tu mi riconoscevi un certo talento nell’usare le parole. È che la scrittura implica un po’ di distanza dall’oggetto, quel distacco che permette una serenità di giudizio, un’oggettività del pensiero. Con te, viceversa, se non c’è mai stata una cosa, questa è proprio la distanza. Certo, si poteva stare qualche tempo senza vedersi, avere idee diverse su molte cose: ma questo non scalfiva quel senso di appartenenza reciproca, di riconoscimento umano ed intellettuale che fonda i rapporti autentici, quelli che sfidano il tempo.
Mi mancano già, di te, un sacco di cose: quello sguardo esigente ed insieme generoso, capace di chinarsi sugli ultimi e di bastonare i presuntosi; la premura gentile con la quale sapevi trarre il meglio dai tuoi orchestrali e la battuta sarcastica e sferzante che stigmatizzava la pigrizia, la mancanza di preparazione e di studio. C’era, nella tua provenienza popolare, il segno distintivo di una nobiltà superiore: quella che sa indulgere alla passione, ma nulla concede alla finzione. Nel pensiero, nella musica, nei sentimenti. Eri fiamma che bruciava, o non eri: non ti saresti mai permesso di suonare Beethoven prima di possedere la profondità della sua anima, l’amarezza della sua sconfitta, la tragedia della sua sordità. Nel dolore di cui narra l’adagio della settima sinfonia, c’era anche il tuo: e, insieme, il dolore del mondo. Conoscevi bene quel luogo misterioso dove la vita, allo stesso tempo, inaridisce e germina, sembra naufragare e rinasce.
È questa, caro amico, la stimmate vera del grande talento artistico: quello che intuisce e sa della straordinarietà della vita e, al contempo, della sua irrimediabile vanità. Questa superiore consapevolezza ti consentiva — tu così fortemente limitato nella tua capacità fisica — di essere leggero, di librare in alto la tua armonia regalandola al mondo: di spiegare a tutti con sfrontata semplicità (quella semplicità che terrorizza i paludati santuari della musica ufficiale ed i loro sacerdoti) il significato della musica, la sua carica di gioia e di libertà. Non ti sei certo risparmiato, e ti sei donato con generosità fin dove — e non di rado oltre — le fibre esili del tuo corpo lo permettevano: lo sanno bene i miei coristi, ai quali hai insegnato — in qualche prova di eccezionale valore che hai ospitato a casa tua — che il canto è intessuto di silenzi, di attese, di ascolto, di forza e di misura. Quegli stessi coristi che in gran parte non conoscono le note, ma che tu hai chiamato a testimoniare davanti al pubblico vasto della televisione come non ci sia differenza tra musica colta e musica popolare, perché la musica è storia di tutti, pur nella diversità delle sue forme e dei suoi significati.
Ti ringrazio di averlo fatto, della dignità di cui ci hai rivestito: è una pagina bellissima della nostra storia che portiamo nel cuore. E della semplice frugalità con la quale hai spezzato con noi qualche panino e alzato il calice per un brindisi. Era una frugalità che sapeva far anche posto, quando capitava, alla sontuosità di una mensa principesca: e ricordo ancora le cene preparate a casa per gli amici più intimi, dove abbiamo scialato caviale e champagne e monumentali chateaubriand innaffiati da baroli di annate e cantine leggendarie. Era il segno di un entusiasmo incoercibile, di una vitalità mai doma, di un bere dalla coppa della vita a piene sorsate.
I greci dicevano che chi muore giovane è caro agli dei…per parte mia, avrei preferito vederti ancora una volta, amico mio, parlare con te, tagliare le verdure mentre cuocevi la pasta, parlare dell’affinità tra musica e poesia, bere una birra e convenire della mediocrità del nostro tempo, nutrire, affettando una bresaola, la speranza di futuro. Come vedi ho detto quattro cose raffazzonate, non ho fatto discorsi retoricamente impostati come tanti ne sentirai nei prossimi giorni: mi basta dirti semplicemente che ti ho voluto bene e che continueremo a chiacchierare, perché i dialoghi, in cielo, sono il privilegio dei salvati.