Natura e origini dello Stato
La modernità politica e istituzionale indagata nel saggio di Luigi Blanco
Durante i mesi del lockdown a seguito delle restrizioni per il coronavirus, le parole «stato» e «frontiere» sono ricorse in modo insistente nel linguaggio, non solo in quello politico ma anche dei cittadini. Espressioni quali: «Gli stati europei devono trovare degli accordi», oppure «dal 3 giugno l’Italia riaprirà le frontiere con l’Europa», hanno coinvolto, anche emotivamente, molte famiglie, basti pensare ai tanti giovani lontani dall’Italia perché studiano o lavorano all’estero. Dopo alcuni decenni in cui, soprattutto in Europa, abbiamo assistito a un processo di «evaporazione» dei confini, la pandemia ci ha messo di fronte a un cambiamento radicale delle nostre abitudini e a restrizioni delle nostre libertà.
Ma lo Stato moderno, così come oggi lo intendiamo, quando ha avuto origine? Perché è importante anche per il presente ricostruire la sua genesi? Come va intesa e come può essere praticata una «prospettiva europea» nella storia della formazione dello Stato moderno?
Sono questi alcuni dei quesiti attorno cui indaga il saggio Le origini dello Stato moderno. Secoli XI-XV (Carocci 344 pagine, 29 euro) di Luigi Blanco, docente di storia delle istituzioni politiche all’Università di Trento. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Stato e funzionari nella Francia del Settecento: gli «ingénieurs des pontset-chaussées» (Il Mulino, 1991) e La storia attraversa i confini (Carocci, 2015).
Un progetto complesso quello di Le origini dello Stato moderno, che risale alla fine degli anni Novanta e s’intreccia strettamente con una parte significativa della vita dell’autore e della storia culturale della città di Trento: quella della fertile stagione storiografica dei primi venticinque anni dell’Istituto storico italo-germanico di Trento, fondato da Paolo Prodi nel 1973.
Professor Blanco, perché uno studio sulle origini dello Stato moderno?
«Tornare alla genesi ci permette di riflettere sulla storicità dello stato stesso, di depurare cioè questo insieme che definiamo “stato” dalla sua naturalità, dalla sua universalità e per certi aspetti anche dalla sua neutralità, per cercare di capire il lungo processo che ha portato all’emergere di tale forma di organizzazione del potere. Proprio per evitare il rischio di concepire come “naturali” o eterne le istituzioni, in primis quella statale, dobbiamo cioè tenere presente che la storia l’hanno fatta gli uomini, quindi in quanto tale può essere superata».
Per Stato moderno non s’intende la forma di organizzazione del potere tipica dell’età moderna?
«Oggi ci si interroga se sia ancora l’epoca degli stati nazionali oppure no, e di crisi dello stato continuiamo a parlare da più di un secolo, eppure gli stati sono più che mai vivi. Nella mia analisi utilizzo la categoria della “lunga durata” che viene dalla storiografia francese delle “Annales” nella convinzione che, al di là delle cesure, vi siano delle continuità profonde che attraversano la storia come fiumi carsici, per poi riemergere in superficie nelle circostanze più impensate».
Nessuna cesura netta, dunque, tra medioevo ed età moderna?
«Ritengo fondamentali le “precondizioni” dello Stato moderno, che individuo nelle trasformazioni strutturali realizzatesi nell’Occidente europeo subito dopo il Mille. Tra esse, la ripresa degli studi giuridici, la rinascita cittadina, la nascita delle università, lo sviluppo dei commerci, l’articolazione territoriale delle forme di potere».
Lei parla dello stato come l’espressione più alta della modernità europea, intesa però come Occidente europeo.
«Pur non essendo meno complesso e meno intriso di incrostazioni ideologiche e di utilizzi impropri, il termine Occidente rimanda a una categoria culturale e anche a un pluralismo giuridico e sociale. Noi oggi definiamo gli stati con un singolo nome – Italia, Francia, Spagna – e non e ci rendiamo conto che quell’insieme è l’esito, mai del tutto consolidato, di una serie di assemblaggi e accorpamenti territoriali».
Nel libro si dichiara debitore della stagione storiografica in cui è nato e si è sviluppato l’Istituto storico italo-germanico di Trento.
«L’Isig di allora è stata una delle più significative esperienze che la storiografia italiana sia stata in grado di realizzare, in tempi certo molto diversi da quelli attuali, ma non meno difficili. Con costanza, metodo e applicazione, oltre che con visione strategica, si è riusciti a fare di Trento una sorta di “stazione di posta”, come amava dire Paolo Prodi, tra il mondo italiano e l’area germanica».
Tornare alla genesi per capire il processo che ha portato all’organizzazione del potere