I pentiti: così si è radicata la cosca
‘Ndrangheta, la ricostruzione dell’arrivo in regione. Il ruolo di Perre detto «U Galera»
Si svolgeranno oggi i primi interrogatori di garanzia dei venti arrestati in regione con l’accusa di associazione mafiosa. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni dei pentiti che ricostruiscono la nascita della presunta ‘ndrina con Perre e Sergi. Ma non è finita: le indagini si concentrano ora sugli aspetti finanziari
TRENTO Ci sono le intercettazioni, i pedinamenti, gli appostamenti alla base dell’operazione Freeland che ha portato all’arresto, nella notte tra lunedì e martedì di venti persone tra Bolzano, Trento, Padova e la Calabria con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso. Ma ci sono anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Quella cruciale è di due anni fa. Un pentito l’ha detto agli inquirenti: a Bolzano c’è un «locale» della ‘Ndrangheta. Ossia una società riconosciuta ad operare da parte della «casa madre». E così la Direzione distrettuale antimafia della Procura di Trento, la direzione centrale anticrimine della Polizia e materialmente gli uomini della Mobile di Trento si sono messi a indagare. E hanno riavvolto il nastro della storia, ripescando in quelle testimonianze, rese da almeno tre collaboratori di giustizia negli anni Novanta, in cui si ricostruiva la genesi di quella che le indagini giunte al termine ieri definiscono la ‘ndrina bolzanina.
Colui che parla ricorda di aver condiviso, negli anni Ottanta, il carcere con alcuni dei soggetti protagonisti dell’inchiesta, in particolare i capi della presunta ‘ndrina, «Mario Sergi e Francesco Perre, detto “U Galera” di Platì». Il collaboratore spiega anche che scelte della casa madre calabrese avrebbero portato Perre, che sarebbe stato «battezzato» proprio quell’autunno (siamo nel 1984, ndr), a tornare in Calabria. E quindi sulla scena regionale si sarebbe affermato Mario Sergi, mentre Perre, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avrebbe tenuto i contatti tra Bolzano e la Calabria. «Mario a quel tempo gestiva insieme a una sorella una pizzeria o un bar o qualcosa del genere a Bolzano. Aveva già un suo mercato di smercio di stupefacenti, di discrete dimensioni, in quel capoluogo. Eravamo tutti giovani molto dinamici, vogliosi di affermarci nell’ambiente criminale. (...) L’intenzione di Mario Sergi, come lui ce la rappresentò, era quella di allargare il suo giro e di prendere in mano il traffico in tutta quella provincia, facendo arrivare direttamente a Bolzano intere partite di roba per evitare il rischio di frequenti trasporti. Per poter realizzare questo piano, noi giovani volevamo creare tutti insieme un unico gruppo e addirittura anche una “locale” a Bolzano, attraverso la quale avremmo potuto affermare il nostro predominio su quella zona». La giustizia però ha bisogno di prove e fatti. E questi sono solo disegni criminosi. Sogni, che letti però alla luce del poi assumono un significato. Anche perché altre due testimonianze confermerebbero questa tesi. Una ricostruisce la genesi della presunta locale di Bolzano. Parenti di questo collaboratore avrebbero «cacciato Perre dal locale di Volpiano e si era trasferito a Bolzano, dove fu “attivato”. Successivamente (...) Giuseppe Perre (figlio di Francesco, ndr) mi ha detto che il padre aveva preso il comando a Bolzano di un locale».
E il terzo a confermare questo quadro, nel 1994, avrebbe anche spiegato le peculiarità di questa presunta ‘ndrina. Di solito infatti, come hanno chiarito anche gli inquirenti illustrando l’indagine, la ‘Ndrangheta apre nuovi «locali» trasferendovi
soggetti provenienti da un luogo, da una famiglia. Invece a Bolzano la ‘ndrina sarebbe un’evoluzione dello schema classico e si formerebbe dalla unione, suggellata anche da qualche matrimonio, di famiglie provenienti da zone diverse, in particolare Delianuova e Platì, coinvolgendo, secondo sempre le ricostruzioni, soggetti collegati alle ‘ndrine PapaliaItaliano e Cua-Ietto-Pipicella di Natile. «A Trento o meglio in Trentino Alto Adige — rivelava il collaboratore di giustizia nel 1994 — eravamo diversi “uomini”, ma non c’era un locale aperto. Questo soprattutto perché non c'erano tanti “uomini” provenienti dallo stesso paese. Infatti la società si forma in un locale che corrisponde a un paese. La ‘Ndrangheta è molto legata al paese e soprattutto alla famiglia, cioè alla discendenza. (...) Dato che in Trentino eravamo più uomini ma non con la stessa provenienza non si costituì una società sul posto. Ognuno degli “uomini” rimaneva attivo nella società del locale di provenienza, cioè del suo paese. Quando mi sono stabilito a Trento già sapevo chi erano gli “uomini” e loro già mi riconoscevano come “uomo”». Il pentito fa alcuni nomi e tra questo c’è quello di Mario Sergi. «Erano tutte persone che come me erano state battezzate, appartenevano alla ndrangheta e ne seguivano le regole». Regole che il pentito ricostruisce: «Quando si sapeva che in un determinato posto c’era un “uomo” si andava a salutare e ci si presentava. In caso di necessità si chiede prima assistenza e aiuto agli altri uomini e non ad estranei». E queste regole, secondo gli inquirenti, valevano anche per Mario Sergi, che già in quegli anni rivestiva il ruolo di «sgarrista», una carica nell’ambito della ‘Ndrangheta. Chiunque saliva dalla Calabria, è la versione degli inquirenti, «doveva portargli i suoi omaggi».