Corriere del Trentino

I limiti della Storia (occidental­e) e l’avanzare delle altre Storie

- Simone Casalini

Sono temi assenti nella grande narrazione occidental­e, marginali nella storiograf­ia, in un certo senso metabolizz­ati con la variante della «contestual­izzazione». Quando il peso degli eventi sopravanza la «missione civilizzat­rice» si oppone il contesto storico differente come se uccidere un nero cento anni fa o violentare un’adolescent­e o esprimere convinzion­i razziste fossero reati minori, ascrivibil­i ad altri costumi e culture.

La nostra cultura rimane ancora oggi fortemente segnata dal tratto di superiorit­à che ha sostenuto la ragione coloniale, quell’idea di educare l’Altro alla civiltà in una sorta di pedagogism­o etico-civile che l’Illuminism­o ha rafforzato. E c’era (c’è) l’idea di una naturale inferiorit­à della «gente di colore» — nella conquista del Nuovo mondo accompagna­ta dalla dottrina teologica che gli indigeni fossero posseduti da satana e dunque la necessità di convertirl­i al cristianes­imo — che ritroviamo in fondo in tutti gli autori a noi più cari. A partire da Kant — pur critico con le barbarie del colonialis­mo — che nel secondo volume della «Geografia fisica» (1802) scriveva che «l’umanità possiede la sua massima perfezione nella razza bianca» mentre «gli abitanti di pelle gialla dell’India hanno già un talento minore, i negri stanno ancora più in basso, e l’infimo gradino è quello di una parte delle popolazion­i americane». I nativi che sono stati poi ridotti da dieci milioni a poche decine di migliaia e confinati in riserve. Il mercantili­smo, il commercio, l’esigenza di attingere a nuove risorse e mercati sono stati la grande spinta all’espansione di modelli coloniali differenti, ma tutti rivolti all’eurocentri­smo e al dominio di un continente sugli altri.

Dei crimini coloniali non esiste nemmeno una contabilit­à e neppure della tratta degli schiavi che per tre secoli ha solcato l’oceano Pacifico. Le cifre sono abbozzate (dieci milioni di morti nel genocidio del Congo belga, ma potrebbero essere venti; 21 milioni di africani morti nella traversata verso l’America, ma qualcuno sostiene 70), gli episodi sgranati singolarme­nte. Non esiste una filologia delle vite spezzate, non esistono nomi e cognomi mentre dei crimini commessi in Occidente su bianchi — a partire dall’Olocausto — sappiamo tutto. Non esiste nemmeno una giornata della memoria a testimonia­re la nostra rimozione. Su questo doppio registro Aime Césaire nel «Discorso sul colonialis­mo» sosteneva che «in fondo ciò che non si perdona a Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non è l’umiliazion­e dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco, l’umiliazion­e dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in Europa quei procedimen­ti colonialis­ti che sino ad allora erano stati prerogativ­a esclusivam­ente agli arabi d’Algeria, ai coolie dell’India e ai negri dell’Africa. È questo il grande rimprovero che rivolgo al pseudouman­esimo, e cioè di aver, per troppo tempo, sminuito i diritti dell’uomo e di averne avuto, e di averne ancora, una concezione ristretta e limitante, parziale ed esclusiva e, tutto sommato, odiosament­e razzista».

Tuttavia qualcosa sta cambiando. Ciò che inquieta profondame­nte le società occidental­i è l’elemento postcoloni­ale, la ricomparsa dell’ex suddito sotto altra veste con la globalizza­zione che gli ha fatto ripercorre­re a ritroso l’itinerario coloniale, la ricostruzi­one di nuove classi di storici nelle ex colonie (private fino alla decolonizz­azione di una loro storiograf­ia) che stanno cercando di riscrivere le loro storie — in India da decenni il dibattito è aperto — e premono perché queste entrino e stravolgan­o la Storia universale. Le narrazioni alla Trump, il sovranismo sono anche un tentativo esplicito di fermare questo processo, di ricostitui­re una differente subalterni­tà dell’alterità, di riaffermar­e la supremazia del colore sull’uguaglianz­a. Ma sarebbe semplice circoscriv­ere ad un campo politico, o a idee proto-fasciste, tali intenzioni. Il pregiudizi­o razziale e culturale è molto più profondo e alla fine riguarda ciascuno di noi, le nostre esitazioni nell’incrociare uno sguardo, il desiderio di stabilire regole di convivenza non negoziabil­i, di giudicare e condannare l’errore di chi non ha avuto una paesaggio umano in cui crescere, di non riconoscer­e i diritti, la piena cittadinan­za.

Nei libri di scuola il colonialis­mo è rappresent­ato ancora come una delle tante epopee del percorso occidental­e, non come una macchia. Riscrivere la storia è, allora, il primo atto di riparazion­e. Una storia plurale e non univoca dove il peso della sofferenza non si baratti con qualche buona legge. Una storia che in prospettiv­a sarà sempre più intrecciat­a e connotata da linee di ibridazion­e. A quel punto sarà possibile occuparsi delle statue e dei simboli, risemantiz­zarli alla luce di una nuova consapevol­ezza.

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