MEMORIA, OBLIO E VERITÀ
Tra gli antichi romani era una delle colpe più gravi cui un cittadino delle classi più elevate potesse macchiarsi, qualora il Senato avesse riconosciuto in lui un nemico di Roma. Vittime della «damnatio memoriae» (condanna della memoria) furono gli stessi imperatori, sia da vivi che da morti. La pena, codificata nel diritto romano, prevedeva che i loro nomi venissero cancellati dai documenti, da tutte le raffigurazioni, le loro statue abbattute o sfregiate, fino ad arrivare alla distruzione delle opere realizzate durante l’esercizio del potere. Il loro nome non avrebbe più fatto parte della genealogia delle loro famiglie né della narrazione della storia di Roma da tramandare. Tale era fin dall’antichità la considerazione della centralità memoria quale strumento di legittimazione del potere. Ma anche fallace la convinzione che la rimozione valesse per l’eternità. Nei secoli successivi, fino ad arrivare alla contemporaneità, la pratica di cancellare sopravvivenze materiali e simboliche del tiranno, del dittatore o del nemico di turno è proseguita, anche senza una legge scritta, con lo stesso intento di regolare una volta per tutte i conti con la storia e segnare il radicale cambiamento del potere. Come se questi atti generassero in automatico processi virtuosi capaci di riparare ai torti subiti, eliminare le incrostazioni del passato, sanare fratture politiche e sociali, ristabilire la verità delle cose, riconciliarsi con la memoria.
Le molte guerre dei monumenti che contraddistinguono il passato quanto il nostro presente, ci fanno capire che così non è. Così come non c’è una verità nella storia che possa sostituirsi a un’altra verità. Sta semmai nella moltiplicazione delle «verità» — impropriamente dette — la via sana e maestra della comprensione, dell’approccio critico al passato e della crescita di una coscienza civile. Stesso ragionamento vale per le memorie che, per quanto molteplici e divise, costituiscono il tratto delle società aperte. Non esiste paese in cui ci sia una memoria collettiva uniforme e condivisa. Siamo partecipi piuttosto di un conflitto di memorie, sensibile agli alti e ai bassi della politica, del dibattito pubblico, dei cambiamenti culturali, della ricerca storica, con l’ago della bilancia pronto ad oscillare tra la riconciliazione e lo scontro aperto, a volte perfino violento. La tensione tra le memorie può generare aspre contese laddove identità diverse convivono in uno stesso territorio, quando maggioranze al potere impongono la loro versione del passato e minoranze inascoltate reclamano dignità e spazio pubblico per le loro memorie.
Gli eventi sono soggetti a un ampio ventaglio di interpretazioni spesso contrastanti e, come sottolinea lo storico John Foot ragionando di memoria divisa in Italia, raramente lo Stato o altri enti pubblici hanno istituito pratiche commemorative durature e comunemente accettate. Ciò avviene non solo nel nostro Paese. Nei processi di edificazione identitaria propri delle comunità nazionali ognuno è depositario di un pezzo di memoria, mai scevra da forme di oblio e rimozione e comunque destinata a rimodellarsi, a ricostruirsi rispondendo alle domande che il presente pone al passato. Colonialismo e schiavismo, lo ricordava Simone Casalini sul Corriere del Trentino e Corriere dell’Alto Adige, sono state a lungo zone d’ombra nella storiografia del cosiddetto mondo occidentale. Con lo sguardo alla storia d’Italia, la fitta coltre di oblio e rimozione che ha coperto il nostro passato coloniale, ad esempio, ha cominciato ad essere diradata con ritardo e grazie all’opera di alcuni (pochi) storici che ne hanno colto la rilevanza e le implicazioni.
Memoria e oblio sono aspetti connaturati ai processi di ricostruzione del passato, l’una senza considerare il peso dell’altro non ci permetterebbe di fare piena luce sugli eventi. Per i monumenti il discorso non cambia, perché ciò che è omesso è altrettanto importante di quanto è visibile. In fondo è questo il compito e il valore della contestualizzazione che dovrebbe sempre accompagnarli.