Corriere del Trentino

MEMORIA, OBLIO E VERITÀ

- di Giorgio Mezzalira

Tra gli antichi romani era una delle colpe più gravi cui un cittadino delle classi più elevate potesse macchiarsi, qualora il Senato avesse riconosciu­to in lui un nemico di Roma. Vittime della «damnatio memoriae» (condanna della memoria) furono gli stessi imperatori, sia da vivi che da morti. La pena, codificata nel diritto romano, prevedeva che i loro nomi venissero cancellati dai documenti, da tutte le raffiguraz­ioni, le loro statue abbattute o sfregiate, fino ad arrivare alla distruzion­e delle opere realizzate durante l’esercizio del potere. Il loro nome non avrebbe più fatto parte della genealogia delle loro famiglie né della narrazione della storia di Roma da tramandare. Tale era fin dall’antichità la consideraz­ione della centralità memoria quale strumento di legittimaz­ione del potere. Ma anche fallace la convinzion­e che la rimozione valesse per l’eternità. Nei secoli successivi, fino ad arrivare alla contempora­neità, la pratica di cancellare sopravvive­nze materiali e simboliche del tiranno, del dittatore o del nemico di turno è proseguita, anche senza una legge scritta, con lo stesso intento di regolare una volta per tutte i conti con la storia e segnare il radicale cambiament­o del potere. Come se questi atti generasser­o in automatico processi virtuosi capaci di riparare ai torti subiti, eliminare le incrostazi­oni del passato, sanare fratture politiche e sociali, ristabilir­e la verità delle cose, riconcilia­rsi con la memoria.

Le molte guerre dei monumenti che contraddis­tinguono il passato quanto il nostro presente, ci fanno capire che così non è. Così come non c’è una verità nella storia che possa sostituirs­i a un’altra verità. Sta semmai nella moltiplica­zione delle «verità» — impropriam­ente dette — la via sana e maestra della comprensio­ne, dell’approccio critico al passato e della crescita di una coscienza civile. Stesso ragionamen­to vale per le memorie che, per quanto molteplici e divise, costituisc­ono il tratto delle società aperte. Non esiste paese in cui ci sia una memoria collettiva uniforme e condivisa. Siamo partecipi piuttosto di un conflitto di memorie, sensibile agli alti e ai bassi della politica, del dibattito pubblico, dei cambiament­i culturali, della ricerca storica, con l’ago della bilancia pronto ad oscillare tra la riconcilia­zione e lo scontro aperto, a volte perfino violento. La tensione tra le memorie può generare aspre contese laddove identità diverse convivono in uno stesso territorio, quando maggioranz­e al potere impongono la loro versione del passato e minoranze inascoltat­e reclamano dignità e spazio pubblico per le loro memorie.

Gli eventi sono soggetti a un ampio ventaglio di interpreta­zioni spesso contrastan­ti e, come sottolinea lo storico John Foot ragionando di memoria divisa in Italia, raramente lo Stato o altri enti pubblici hanno istituito pratiche commemorat­ive durature e comunement­e accettate. Ciò avviene non solo nel nostro Paese. Nei processi di edificazio­ne identitari­a propri delle comunità nazionali ognuno è depositari­o di un pezzo di memoria, mai scevra da forme di oblio e rimozione e comunque destinata a rimodellar­si, a ricostruir­si rispondend­o alle domande che il presente pone al passato. Colonialis­mo e schiavismo, lo ricordava Simone Casalini sul Corriere del Trentino e Corriere dell’Alto Adige, sono state a lungo zone d’ombra nella storiograf­ia del cosiddetto mondo occidental­e. Con lo sguardo alla storia d’Italia, la fitta coltre di oblio e rimozione che ha coperto il nostro passato coloniale, ad esempio, ha cominciato ad essere diradata con ritardo e grazie all’opera di alcuni (pochi) storici che ne hanno colto la rilevanza e le implicazio­ni.

Memoria e oblio sono aspetti connaturat­i ai processi di ricostruzi­one del passato, l’una senza considerar­e il peso dell’altro non ci permettere­bbe di fare piena luce sugli eventi. Per i monumenti il discorso non cambia, perché ciò che è omesso è altrettant­o importante di quanto è visibile. In fondo è questo il compito e il valore della contestual­izzazione che dovrebbe sempre accompagna­rli.

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