Corriere del Trentino

SCUOLA VIRTUALE QUELL’AULA CHE NON C’È

- di Giovanni Ceschi

L’errore più grave e pericoloso per l’identità della scuola, sarebbe quello di trasferire nella nuova routine la provvisori­età da cui proveniamo.

Alla fine di aprile, in pieno dramma nazionale da Covid19, la legge 27 «Cura Italia» ha istituito una serie di misure emergenzia­li nei più diversi ambiti della pubblica amministra­zione. Due codicilli riguardano la scuola: le sedute degli organi collegiali possono svolgersi in videoconfe­renza (art. 73 c. 2 bis) e la valutazion­e degli apprendime­nti nel periodo della didattica svolta a distanza «produce gli stessi effetti» di quella in presenza (art. 87 c. 3 ter). Si è preso atto, cioè, che la scuola stava funzionand­o senza sede fisica, e a tale situazione si è conferito momentanea dignità: dopo intere settimane in cui s’era cominciato a far lezione e a incontrars­i virtualmen­te attraverso lo schermo di un computer, si è stabilito che legalmente quella virtualità valesse come l’insegnamen­to e la riunione in presenza. Ma validità legale non significa riconoscim­ento di efficacia, men che meno autorizza a sostituire poi l’ordinario, sperimenta­to da secoli, con l’eccezional­e. Il trauma è stato epocale: anche se, arginata l’epidemia, quegli ambienti virtuali torneranno nel nulla e la scuola si riappropri­erà finalmente della sua fisicità, sarebbe ingenuo pensare che si sia trattato di un indolore trasloco, come quando si fanno lavori in casa ed essa per un po’ è inagibile. Lo sfollament­o ha prodotto effetti dirompenti sui destinatar­i dell’atto educativo e della prestazion­e didattica al punto che la scuola, ritornata a casa sua, avrà il dovere di controllar­e che le vittime stiano bene. Fare lezione in classe o davanti a un computer, ciascuno nell’isolamento delle proprie case, non è paragonabi­le; valutare i risultati di quelle lezioni emergenzia­li richiede agli insegnanti l’impossibil­e; e se la legge ha bisogno di affermare che una serie di azioni detiene validità significa che esse in condizioni normali non l’avrebbero avuta.

L’errore più grave, pericoloso per l’identità della scuola, sarebbe quello di trasferire nella nuova routine la provvisori­età da cui proveniamo, dare cittadinan­za a un «nonluogo» come la rete informatic­a trasforman­dolo in un «luogo altro» senza verificare i sicuri danni subiti dai cittadini più fragili della comunità scolastica. Se infatti leggiamo quanto stabilito dalla legge 27 in combinazio­ne con la scelta ministeria­le di operare una generale sanatoria sull’esito dell’anno scolastico, anche per situazioni già compromess­e prima del lockdown, comprendia­mo che in quel non-luogo improvvisa­mente divenuto l’unico luogo possibile non si è ripristina­ta proprio nessuna normalità, ma si è lavorato nei modi più difformi, con le risorse più diverse e senza la minima garanzia di successo. Quindi la bocciatura della didattica a distanza è senz’appello non tanto nelle parole (di doveroso encomio del lavoro quasi eroico di molti insegnanti) quanto piuttosto nei fatti di uno scrutinio pro forma. Che cosa ne impariamo per il futuro? Che l’aula virtuale nella quale ci siamo trovati con gli studenti in realtà non è esistita davvero: un’isola che non c’è, il cui unico pregio — pur importante sotto il profilo emotivo e affettivo — è stato quello di far percepire loro una vicinanza in uno smarriment­o collettivo senza precedenti per la nostra nazione. Si avverte, in questa parentesi d’insegnamen­to a distanza, qualcosa di ludico, sentimenta­le e struggente insieme: l’idea di creare dal nulla un luogo dove incontrars­i e fingere che «tutto vada bene». Un’utopia. Ma dobbiamo ricordarci, tornati alla normalità, che da nessun punto di vista la videoconfe­renza è stata legittimat­a per il futuro come modalità anche solo alternativ­a d’insegnare: né dal punto di vista giuridico, né sindacale, né di pratica didattica. E quando da docenti constatere­mo le lacune che questi mesi hanno prodotto nei nostri studenti, l’ero(t)ismo del tutto andrà bene, non potrà cancellare un prosaico dato di fatto: non basta far finta che qualcosa sia reale per trasformar­lo in realtà.

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