Corriere del Trentino

Paolo Rossi e la pandemia «Un teatro delle origini»

A Bolzano con «Pane o libertà. «Niente come prima? Meglio»

- di Silvia M.C. Senette

«Se ci fosse il mare l’Alto Adige sarebbe perfetto e non me ne andrei più. Certo, ci sono i laghi ma l’acqua è gelida, a funghi non so andare e per la pesca della trota non ho pazienza». Ride, Paolo Rossi, quando gli si fa notare che la sua presenza all’ombra delle Dolomiti è ormai stanziale. Prima con le

Prove aperte al Comunale, poi con il tour di Microteatr­o on the road e ora con lo spettacolo Pane o libertà che fino a domenica lo vedrà sul palco di piazza Verdi, accompagna­to dagli Anciens Prodiges, in uno show che settimana prossima porterà al Teatro Strehler di Milano.

Cosa le hanno insegnato questi mesi da teatrante nomade?

«La bellezza del microteatr­o per l’agilità con cui può spostarsi. Abbiamo addobbato le piazze allestendo lo spettacolo in poche ore con un’occupazion­e allegramen­te militare. Io sono un ex sergente dell’esercito arruolato nei carristi e so circoscriv­ere la zona in tempi rapidi, delimitand­o in modo suggestivo e teatrale lo spazio con postazioni raggiungib­ili dall’occhio di bue che controlla qualsiasi incidente, cosa che all’aperto capita spesso».

Non la destabiliz­za?

«Per chi fa teatro popolare, di emergenza, all’improvviso, per chi come me è figlio e nipote della commedia dell’arte, non c’è uno spazio dove non si può fare teatro».

Lei viene spesso bollato come un artista politicizz­ato.

«Ma cos’è più politico? Portare un monologo in un bel teatrone elegante e parlare delle periferie, mettersi una medagliett­a, in tasca più soldi ed essere elogiato e premiato oppure prendere una compagnia con nove persone e, grazie anche al tuo nome, andare nelle periferie e fare qualsiasi cosa per portare la gente fuori di casa?».

A Bolzano che spettacolo porta?

«Saranno frammenti di prove che sono state stimolate e drammatizz­ate in trenta repliche da un lavoro che nasce dalla serie di classici fatti. Si sa dove si parte e non dove si arriva. C’è sia la partitura scritta sia l’improvvisa­zione, che però è una cosa seria: noi conosciamo la parte di tutti a memoria, per questo sappiamo improvvisa­re come nel jazz e nella commedia dell’arte. Non inventiamo niente, rivestiamo di nuovo”.

Qual è il filo rosso?

«Lo decidiamo di volta in volta. Niente tornerà come prima, tanto meno il teatro. Meglio, perché il problema non è tornare alla normalità: il problema è la normalità. Qualcuno cercherà di recuperare ciò che era prima; altri, come noi, di tornare alle origini proponendo il teatro come un’arena, un’assemblea condominia­le, un parlamento buffo, un processo simbolico».

È il lascito della pandemia?

«Diciamo che abbiamo saputo sfruttare un ostacolo a nostro favore. Le prove aperte ci hanno fatto capire che recitare con il pubblico ottimizza tempo, denaro ed energie per gli attori che verificano subito se una cosa funziona».

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