Paolo Rossi e la pandemia «Un teatro delle origini»
A Bolzano con «Pane o libertà. «Niente come prima? Meglio»
«Se ci fosse il mare l’Alto Adige sarebbe perfetto e non me ne andrei più. Certo, ci sono i laghi ma l’acqua è gelida, a funghi non so andare e per la pesca della trota non ho pazienza». Ride, Paolo Rossi, quando gli si fa notare che la sua presenza all’ombra delle Dolomiti è ormai stanziale. Prima con le
Prove aperte al Comunale, poi con il tour di Microteatro on the road e ora con lo spettacolo Pane o libertà che fino a domenica lo vedrà sul palco di piazza Verdi, accompagnato dagli Anciens Prodiges, in uno show che settimana prossima porterà al Teatro Strehler di Milano.
Cosa le hanno insegnato questi mesi da teatrante nomade?
«La bellezza del microteatro per l’agilità con cui può spostarsi. Abbiamo addobbato le piazze allestendo lo spettacolo in poche ore con un’occupazione allegramente militare. Io sono un ex sergente dell’esercito arruolato nei carristi e so circoscrivere la zona in tempi rapidi, delimitando in modo suggestivo e teatrale lo spazio con postazioni raggiungibili dall’occhio di bue che controlla qualsiasi incidente, cosa che all’aperto capita spesso».
Non la destabilizza?
«Per chi fa teatro popolare, di emergenza, all’improvviso, per chi come me è figlio e nipote della commedia dell’arte, non c’è uno spazio dove non si può fare teatro».
Lei viene spesso bollato come un artista politicizzato.
«Ma cos’è più politico? Portare un monologo in un bel teatrone elegante e parlare delle periferie, mettersi una medaglietta, in tasca più soldi ed essere elogiato e premiato oppure prendere una compagnia con nove persone e, grazie anche al tuo nome, andare nelle periferie e fare qualsiasi cosa per portare la gente fuori di casa?».
A Bolzano che spettacolo porta?
«Saranno frammenti di prove che sono state stimolate e drammatizzate in trenta repliche da un lavoro che nasce dalla serie di classici fatti. Si sa dove si parte e non dove si arriva. C’è sia la partitura scritta sia l’improvvisazione, che però è una cosa seria: noi conosciamo la parte di tutti a memoria, per questo sappiamo improvvisare come nel jazz e nella commedia dell’arte. Non inventiamo niente, rivestiamo di nuovo”.
Qual è il filo rosso?
«Lo decidiamo di volta in volta. Niente tornerà come prima, tanto meno il teatro. Meglio, perché il problema non è tornare alla normalità: il problema è la normalità. Qualcuno cercherà di recuperare ciò che era prima; altri, come noi, di tornare alle origini proponendo il teatro come un’arena, un’assemblea condominiale, un parlamento buffo, un processo simbolico».
È il lascito della pandemia?
«Diciamo che abbiamo saputo sfruttare un ostacolo a nostro favore. Le prove aperte ci hanno fatto capire che recitare con il pubblico ottimizza tempo, denaro ed energie per gli attori che verificano subito se una cosa funziona».