I NUMERI CHE FANNO RIFLETTERE
Con 5.470 ricoverati negli ospedali e 539 di loro nelle terapie intensive, 84.436 in isolamento domiciliare e, negli ultimi trenta giorni, 561 morti possiamo serenamente dire che il virus esiste e lotta contro di noi. Esiste, contagia, ci fa del male. Ma la domanda che tutti ci facciamo però è se stiamo precipitando di nuovo nei giorni oscuri del marzo scorso o se l’epidemia è sotto controllo.
E cominciamo dai dati. Il 10 marzo, quando il governo decise un doloroso lockdown che di quindici giorni per quindici giorni andò avanti fino al 3 giugno e poi ancora in forma attenuata, in ospedale erano ricoverate 5.038 persone, 877 delle quali in terapia intensiva, e i morti quel giorno furono 163. In isolamento domiciliare erano in 2599.
A un primo sguardo, e con 152mila tamponi effettuati in un solo giorno (ieri), i dati sembrano incoraggianti e sembrano non giustificare allarmi: abbiamo fatto molta ricerca sul campo, le persone ricoverate in terapia intensiva sono la metà, i casi critici negli ultimi 30 giorni sono pochi. E in questo senso circolano molti grafici (anche fatti a mano) sui social proprio con l’intenzione di tranquillizzare.
Ma purtroppo i dati di allora e quelli di oggi non sono paragonabili. Il perché è semplice; a marzo, anche su indicazione dell’Istituto superiore di Sanità, i tamponi venivano eseguiti soprattutto alle persone che denunciavano sintomi del Covid (raffreddore, tosse, febbre eccetera).
Oggi al contrario i tamponi sono eseguiti soprattutto a chi ha avuto contatti con casi accertati: l’obiettivo è trovare e circoscrivere gli eventuali nuovi focolai.
Ma così accade di trovare molti asintomatici positivi (che furono, nella prima ondata della malattia, la carta vincente di Andrea Crisanti e che poi guidò la politica della Regione Veneto nel contrastare il virus). Una ulteriore conferma arriva dalle tabelle dell’Istituto superiore di sanità che rivelano come negli ultimi 30 giorni più della metà dei positivi siano proprio gli asintomatici. Come ricordava nei giorni scorsi l’infettivologo Massimo Galli: «I positivi di oggi stanno in media molto meglio dei positivi di marzo, ma a marzo potevamo fare un tampone solo a quelli che stavano male o malissimo, mentre gli altri, il 95% circa degli infettati, stavano a casa senza poterlo fare». Quindi, se proprio vogliamo paragonare dei dati, dovremmo mettere a confronto quante persone erano ricoverate in terapia intensiva quando nella prima fase avevamo 2000 nuovi positivi o poco più. E scopriremmo che erano 229, molte meno di oggi. Un dato suggestivo e preoccupante, anche se non ha alcun valore scientifico. Gli unici dati scientifici sono quelli dell’Istituto superiore di Sanità: che ci dicono che negli ultimi 30 giorni sono emersi 68.507 casi di coronavirus, 2.246 sanitari si sono ammalati, l’età media dei contagiati è di 42 anni e i morti sono 561. L’altro dato preoccupante è che ci sono molte regioni in Italia che hanno un indice Ri superiore a uno (quante persone contagia un positivo, quando è superiore a uno l’epidemia si diffonde, quando è inferiore no): fra queste il Trentino (1,18 con picchi fino a 1,62) Alto Adige (1,1 con dati fino a 1,73) e il Veneto (1,13 con un massimo di 1,34). L’EmiliaRomagna è a 0,84 con punte a 1,04. Ma i dati sono stati aggiornati al 4 ottobre, e nel frattempo i positivi sono assai aumentati.
Un altro grafico di Gimbe, di sabato scorso, segnala la densità del contagio ogni centomila abitanti: la Campania è prima in Italia, la provincia di Bolzano è seconda, la Sardegna è terza, l’Emilia Romagna ottava, la provincia di Trento è nona, il Veneto è tredicesimo subito dopo la Lombardia.
La matematica è fantastica, ma la verità non è sempre nei numeri che ti piacciono.