NESSUNO PENSA AL FUTURO
Ecosì, come si temeva e soprattutto si prevedeva, le curve dei contagi sono tornate a salire. L’unico paese senza contagi è oggi quello dal quale tutto è partito, al punto che sono loro ora che non vogliono contatti con il resto del mondo. Non voglio toccare complesse questioni di geopolitica, sebbene siano sempre affascinanti e di grande importanza per leggere quello che accade e che influenza le nostre vite.
Il tema che vorrei affrontare qui riguarda semmai la debolezza del mondo occidentale, e dell’Italia in particolare a pianificare, a farsi trovare pronti. Quello che è accaduto a marzo era oggettivamente imprevedibile, ci siamo trovati per primi di fronte ad un problema temuto, ma inaspettato nelle dimensioni e nella rapidità. Per questo motivo mi lascia perplesso vedere ora medici denunciati per quanto fatto o non fatto in quel periodo, dato che il sistema Paese era in emergenza assoluta, privo di protocolli e procedure.
Ma ora è diverso, perché quello che vediamo non è una sorpresa, ma un percorso che continua. I mesi estivi, di relativa tranquillità, ci hanno indotto, come cittadini, ad allentare la guardia, a pensare che tutto fosse finito. Le istituzioni hanno tirato un sospiro di sollievo, sperando di averla sfangata e quindi meno tensione ad introdurre cambiamenti. Molto meglio distribuire soldi a pioggia, a pensare di usare i soldi europei per lavoretti di vario genere o per qualche malsano rigurgito di statalismo.
Meglio dibattere su banchi con o senza rotelle, ma alla fine cercare di mantenere lo status ante, peraltro già traballante di suo. Ora ci troviamo di fronte ai medesimi problemi, forse leggermente meno drammatici rispetto ai mesi del lockdown, ma quasi impreparati. Si aprono le scuole, con protocolli rigidi, ma il trasporto è un elemento critico, come se fosse una sorpresa. Allora si propone la chiusura delle scuole, tanto, la generazione è già bruciata. Nello stesso tempo però in Italia ci sono migliaia di pullman fermi, in quanto i viaggi e le gite sono annullate, non esistono più. Si tratta di aziende che magari ricevono sussidi per stare ferme: ma perché non farle lavorare affiancando il trasporto pubblico?
Questa situazione non fa che aumentare quell’incertezza che blocca economia e società: ci si limita ai consumi quotidiani, nessuno investe, nessuno pensa al futuro, se non in termini di nebbia fitta.
Qui in Trentino si inizia a ragionare ora sulla stagione invernale. I risultati estivi migliori del previsto ci hanno rilassati tutti. Ma il problema è ora l’inverno: si potrà aprire la stagione invernale? Forse nella migliore delle ipotesi sarà un anno duro, forse durissimo. Innanzitutto mancheranno gli stranieri, il che vuol dire, in alcuni comprensori, un sostanziale dimezzamento delle presenze. E gli italiani verranno? O avremo solo sciatori di prossimità? Il problema è quello che caratterizza il mondo intero: si sono ridotte le dimensioni del business, quindi il mondo produttivo, salvo qualche eccezione, non raggiunge il break even, ossia il punto di pareggio dove i ricavi coprono i costi ed inizia il profitto. Le compagnie aeree rottamano aerei costati centinaia di milioni, e noi come gestiamo il nostro break-even? Noi abbiamo un’offerta turistica basata sui picchi: grandi impianti, grandi piste, grandi alberghi. Il modello «ski total» che lavora e rende solo con i grandi numeri. Gli impianti a fune hanno solo costi fissi: accesi o spenti. Lavorare al 50% (non per i vincoli di distanziamento, ma proprio per contrazione del mercato) potrebbe voler dire dolorose perdite. Gli alberghi idem, anche se qualche costo variabile c’è, ma sono marginali: personale, riscaldamento, ammortamenti, promozione, sono costi fissi. Quindi apriranno o resteranno chiusi?
Personalmente ritengo inimmaginabile l’impatto sulla nostra economia di una cancellazione della stagione invernale. Ma come possiamo gestire la situazione? Cerchiamo di aiutare tutti o di concentrare gli eventuali aiuti su quelle aree che riteniamo prioritarie e sistemiche, soprattutto per l’impatto economico e sociale che creano? Per essere brutale, se la Panarotta o la Polsa restassero chiuse per un anno, non sarebbe la fine del mondo, ma se la val di Fassa o Campiglio non aprissero, cosa succederebbe?
Sono scelte difficili e complesse, ma temo che nei prossimi mesi il mondo intero sarà chiamato a decisioni di forte discontinuità rispetto al passato. Le decisioni non partiranno dalla politica, che nel mondo occidentale tutto, dai livelli più alti, ai livelli più bassi, lavora quasi esclusivamente per massimizzare il consenso di breve, ma le decisioni potranno essere pretese dal contesto, che renderà incompatibili gli approcci convenzionali.
In uno degli ultimi numeri dell’Economist, si analizzava come l’Europa potrebbe essere l’area che uscirà più malconcia dalla pandemia, proprio per la sua incapacità di cambiare passo, di cambiare pensiero, prigioniera di schemi convenzionali, incapaci di gestire una situazione non convenzionale.
Per fortuna in Trentino abbiamo l’isola felice della Cooperazione, dove il girotondo dei nomi è tranquillizzante: sempre gli stessi, un giorno su una poltrona, il giorno dopo su un’altra. Ogni tanto si perde per strada qualche pezzo, ma poco importa, tanto alla fine qualche decina di milioni di euro da piazza Dante arriva sempre: come lo Stato salva quasi annualmente Alitalia, ci sta che la Provincia di Trento salvi quasi annualmente la cooperazione.