‘Ndrangheta, dalle carte spunta il legame fra Trento e Roma
Denise e Battaglia hanno scelto il silenzio «Niente tampone», Nania rinviato a domani
Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere i primi indagati nell’ambito dell’operazione «Perfido» che ha portato all’esecuzione di 19 misure cautelari per mafia. Gli interrogatori proseguiranno domani. Emergono i larghi interessi dei presunti mafiosi: dai cantieri alla logistica. E Raimondi ribadisce: «Tutti i settori sono a rischio».
Hanno scelto e sceglieranno la via del silenzio i primi dei 19 indagati per associazione di tipo mafioso nell’ambito della maxi operazione Perfido messa in atto dalla Procura di Trento con i Ros dei carabinieri. Una via in parte obbligata anche dalla mole di atti che le difese, prima di aprire bocca, vogliono studiare: si tratta di 275 pagine di ordinanza e di 2.800 pagine solo di relazione dei Ros. Cui andrebbero aggiunti tutti i faldoni con le singole intercettazioni. E intanto emergono nuovi fronti nell’ambito dell’inchiesta che ha svelato, nell’ipotesi degli inquirenti, l’esistenza di una locale della ‘ndrangheta in Trentino, a Lona Lases: dagli atti emerge che l’asse Calabria-Trentino avrebbe avuto un appoggio anche a Roma dove avrebbero operato tre soggetti, tutti indagati, con precisi ruoli e scopi. In testa procurare appalti e denaro per l’organizzazione.
La difesa
Ieri si sono svolti intanto i primissimi interrogatori di garanzia: Giuseppe Mario Nania, difeso con Alessandro Meregalli dall’avvocato Luca Pontalti (che difende anche Pietro Battaglia e Costantino Demetrio) e in carcere a Modena doveva essere sentito oggi in videochiamata ma il Covid-19 ha messo lo zampino pure qui: in assenza dell’esito del tampone il magistrato del carcere ha preferito rinviare a lunedì l’appuntamento. Si è portato invece fino a Pavia l’avvocato Claudio Tasin, che difende Pietro Denise, e si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Presenteremo — aggiunge — istanza al tribunale del Riesame». Medesima scelta, quella del silenzio, condotta da Filippo Fedrizzi, legale, con Carlo Chelodi, di Giuseppe Battaglia, in carcere a Bergamo, e della moglie (ai domiciliari) Giovanna Casagrande. «Prima — spiega l’avvocato — dobbiamo studiare attentamente la grande mole di atti, che abbiamo ricevuto solo ieri (venerdì, ndr) alle 19». Appuntamento sempre domani anche per gli altri soggetti arrestati tra cui Arafat Mustafà, difeso da Giuliano Valer. Per tutti comunque la linea pare essere comune, ossia quella del silenzio per poter studiare attentamente le carte e la strategia da mettere in campo.
Il gruppo romano
E del resto l’indagine, che avrebbe portato allo scoperto l’esistenza di una locale, una sorta di cellula distaccata, della ‘ndrangheta in val di Cembra è complessa e ramificata. Se, stando alle ipotesi degli inquirenti, gli appetiti dei presunti malavitosi si sarebbero concentrati in una prima fase sul mondo del porfido, poi si sarebbero estesi ad altre realtà. Figura chiave in quest’ottica sarebbe quella di Domenico Morello, imprenditore del settore della logistica, in contatto con esponenti della «casa madre» a Cardeto e con i membri della locale trentina, ma anche «trait d’union — si legge negli atti — tra il sodalizio calabrese impiantato in Trentino e una ramificazione operante a Roma». Tre i membri di questa presunta ramificazione romana Alessandro Schina, considerato «il braccio operativo» del gruppo in contatto con elementi della criminalità romana (come Marco Vecchioni, finito anche nella maxi indagine Mafia capitale), Federico Cipolloni, commercialista e in questa veste in grado di dare parvenza legale alle operazioni finanziarie ritenute illecite del gruppo e il carabiniere Fabrizio De Santis, che per gli inquirenti avrebbe svolto una funzione di informatore di eventuali azioni delle forze dell’ordine su soggetti legati al sodalizio stesso e colpiti da eventuali provvedimenti. In un’intercettazione Schina afferma infatti che «ha un amico carabiniere, commenta che loro (carabinieri) vedono quale sia la situazione dai terminali». Ossia hanno accesso a informazioni riservate su singoli individui.
Gli appalti e la molotov
Gli scopi del gruppetto non sarebbero puliti, secondo gli inquirenti, che avrebbero anche dimostrato come i quattro avessero sottoscritto un patto di mutuo aiuto verso le rispettive famiglie: nel caso uno di loro finisse in carcere li