La mafia e le cene conviviali: adesso i giudici rischiano
Alcuni passaggi dell’ordinanza del gip Marco La Ganga sull’inchiesta «Perfido», la presunta locale della ‘ndrangheta in Trentino — che svela- no incontri e cene alle quali avrebbe partecipato anche un gruppo di magistrati del Tribunale di Trento, oltre a un ex prefetto, un vicequestore e un ufficiale dei carabinieri — sono approdati sul tavolo del procuratore di Trieste Antonio De Nicolo. Trento ha trasmesso gli atti alla Procura triestina per valutare eventuali illeciti, al vaglio anche profili disciplinari. Dagli atti dell’inchiesta, che vede 19 indagati (tutti avvalsi della facoltà di non rispondere), emergono anche le truffe.
Amarzo, in piena pandemia, si è laureato all’Università di Trento con una tesi che oggi — alla luce dell’inchiesta «Perfido» — sembra essere una sorta di profezia: «Potrebbe esistere la ‘ndrangheta in Trentino? Un confronto con il caso emiliano» recita il titolo. Alberto Marmiroli, 29 anni, di Reggio Emilia, neodottore in «Gestione delle organizzazioni e del territorio», dice però di non possedere nessuna dote divinatoria, ma si presenta semplicemente come un giovane e appassionato studioso. È partito dal processo «Aemilia» — il più grande processo contro la ‘ndrangheta nel Nord Italia — e poi ha iniziato a indagare, con l’aiuto di alcuni sindacalisti, ex lavoratori ed ex amministratori, il mondo dell’industria porfirica nella val di Cembra. Sostenendo infine, sulla base di molteplici indicatori, che «il mondo del porfido è un settore ideale per la ‘ndrangheta».
Alberto Marmiroli, partiamo dall’inizio. Come nasce l’idea della sua tesi di laurea magistrale?
«L’idea è nata circa due anni fa quando mi sono imbattuto in una serie di articoli giornalistici che parlavano della possibile presenza della ‘ndrangheta in val di Cembra. E così, avendo già studiato sociologia in triennale all’Università di Parma e avendo fatto parte di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, ho deciso di approfondire il tema».
Come ha sviluppato il lavoro di ricerca?
«Sono partito innanzitutto dallo studio della storia della mafia e della ‘ndrangheta e poi ho ricostruito il fenomeno mafioso in Emilia, utilizzando degli indicatori che avevo trovato in alcuni saggi specialistici. Dopodiché mi sono accorto che molti di questi indicatori facevano pensare a una possibile presenza della ‘ndrangheta nell’industria del porfido e ho quindi iniziato a intervistare alcuni opinion leader, in particolare due delegati sindacali (uno dei quali con la delega delle cave), un ex sindaco e un ex amministratore di uno dei Comuni del porfido, un giornalista che si era occupato della vicenda e un ex lavoratore delle cave che era stato minacciato».
Quali sono questi indicatori?
«Ce ne sono molti, uno dei più importanti è sicuramente il potenziale conflitto di interessi nella gestione delle cave. In val di Cembra il costo dei canoni e la durata delle concessioni delle cave sono molto bassi perché fondamentalmente sono i Comuni che gestiscono la risorsa porfido. Ma molte persone rilevanti all’interno delle amministrazioni comunali sono gli stessi pionieri dell’industria del porfido negli anni Settanta, oppure sono loro parenti. E quando c’è un ibrido tra classe dirigente e classe imprenditoriale aumenta il rischio delle infiltrazioni mafiose».
Altri fattori che rendono un settore o un territorio appetibile per la ‘ndrangheta?
«Il basso livello tecnologico dell’industria del porfido, che facilita lo sfruttamento degli operai, soprattutto degli stranieri, che spesso — anche per via della loro forma mentis — non sono tutelati dai sindacati. Un altro indicatore è la presenza di calabresi all’interno delle amministrazioni comunali, che a volte ricoprono anche un ruolo di responsabilità nella gestione delle cave. Con ciò non voglio assolutamente dire che i calabresi sono dei mafiosi, ma un calabrese che ha un ruolo di responsabilità in un business tradizionale, molto attrattivo per la ‘ndrangheta, è più fragile di un trentino perché può essere minacciato anche in forme non documentabili a livello giuridico, in modalità che non creano allarme sociale. E poi bisogna tener conto anche della cosiddetta «legge dei fortini»: i comuni più piccoli sono anche i più attrattivi perché spesso dispongono di poche unità di carabinieri o polizia».
Dopo una ricerca di questo tipo, che effetto le ha fatto sapere che in Trentino è stata scoperta una presunta «locale» di ‘ndrangheta?
«È stata una sensazione forte a livello emotivo. Alcune dinamiche le avevo capite quando ho parlato con persone che avevano subito minacce».