‘Ndrangheta, resta in cella il «custode delle armi»
Il Riesame rigetta il primo ricorso. La difesa: lettura fantasiosa delle intercettazioni
Resta in carcere «il custode delle armi» (come viene indicato dagli inquirenti) Pietro Denise arrestato nell’ambito dell’inchiesta «Perfido» sulla ‘ndrangheta. Il Tribunale del Riesame ha respinto il ricorso del difensore. L’avvocato Claudio Tasin aveva chiesto la revoca della misura: «Denise estraneo, lettura fantasiosa delle telefonate».
TRENTO Calabrese doc, ma Trentino d’adozione dove vive ormai da anni (risiede a Civezzano), viene indicato dallo stesso gip Marco La Ganga nell’ordinanza come figura marginale rispetto al presunto boss, Innocenzio Macheda e ai fratelli Pietro e Giuseppe Battaglia, nonché ai presunti stretti affiliati alla cosca calabrese Antonio «Nino» Serraino trapiantati in Trentino. Posizione più defilata la sua, ma non abbastanza da fargli guadagnare la libertà.
In carcere a Pavia dopo l’arresto a metà ottobre nell’ambito dell’inchiesta «Perfido» dei carabinieri del Ros di Trento e della guardia di finanza Pietro Denise — «il custode delle armi», come viene indicato negli atti della Procura — resta in cella. Il Tribunale del Riesame ha infatti confermato la misura cautelare rigettando il ricorso del difensore, l’avvocato Cladio Tasin. È la prima conferma dell’impianto accusatorio tracciato dalla Procura. Una decisione presa in tempi rapidissimi. Il collegio, composto dai giudici Giorgio Flaim, Massimo Morandini e Greta Mancini, è uscito con il dispositivo, riservandosi le motivazioni, solo poche ore dopo l’udienza. Ieri mattina in aula, davanti alla Corte, c’erano anche i pm Maria Colpani, Davide Ognibene e Licia Scagliarini, titolari del fascicolo d’indagine. Un braccio di ferro tra difesa e accusa.
Il difensore nel ricorso ha spiegato che Denise viene coinvolto solo per il fatto di essere calabrese e di aver partecipato ad alcune cene con i corregionali. Parla di «una lettura severa e in parte fantasiosa delle intercettazioni telefoniche». Quelle telefonate in realtà avevano un significato ben differente, Denise si sarebbe semplicemente lamentato in quanto vantava dei crediti per l’attività prestata che non era stata retribuita. Questo, ad avviso della difesa, spiegherebbe le affermazioni di sfogo, contenute nelle telefonate intercettate dai carabiin nieri del Ros, «che non consentono però, nel complesso del dialogo, di individuarlo come partecipe della consorteria. In sintesi Denise era solo un dipendente arrabbiato per i soldi non versati da Battaglia. Nessun legame con la cosca quindi. La difesa parla di fatti (le contestazioni sono relative al 2018 ndr) «rilevabili esclusivamente dalle intercettazioni telefoniche».
Ma la Procura lo indica come «compartecipe del sodalizio, esecutore delle direttive del capo cosca, provvede alla manutenzione e all’occultamento delle armi».
È questo un altro aspetto stigmatizzato nel ricorso dell’avvocato. Indicato, dopo l’intercettazione del 31 marzo 2018, come «custode delle armi», ad avviso della difesa non sarebbe stato effettuato alcun accertamento e inoltre sede di perquisizione non sono state trovate armi. Insomma nessuna prova e anche per quanto riguarda le esigenze cautelari la difesa ha cercato di minare i capisaldi alla base dell’ordinanza chiedendo la revoca della misura cautelare o in subordine gli arresti domiciliare. Niente da fare, Denise resta in carcere così come gli altri diciotto indagati tuttora in carcere.
Le motivazioni della decisione del Riesame si conosceranno solo tra qualche giorno, nel frattempo anche i difensori degli altri presunti affiliati alla cosca ‘ndrina sono al lavoro e stanno valutando quale strada intraprendere e se presentare un ricorso al Riesame oppure chiedere di essere sentiti dai pubblici ministeri.