IL TEMPO PERDUTO
Le restrizioni alle nostre libertà sembrano avere riportato le lancette dell’orologio a marzo quando sul Paese calò il silenzio del lockdown, dell’inattività, della peste che sotterraneamente guadagnava campo in un ambiente sorpreso. Sembrano, però. Perché le analogie riguardano le misure ma non le condizioni di partenza, il know how del virus, la densità del contagio. L’assenza di chiarezza nelle comunicazioni politiche e sanitarie — e l’angoscia che esse generano — sono invece il trait d’union con la nostra storia recente. Del resto, è giusto premettere che la gestione di un fenomeno globale come la pandemia da Covid-19 e l’impossibilità di individuare una risposta efficace in tempi brevi (il vaccino) espone chi ha responsabilità di governo (a tutti i livelli) ad una tecnica decisionale che potremmo definire per approssimazione. Si osserva la curva dei contagi, i posti di terapia intensiva occupati, la tenuta del sistema sanitario e si cerca di sottrarre al virus spazi di diffusione che sono poi la nostra socialità, la nuda vita.
Tuttavia, rispetto al mese di marzo è cambiato qualcosa in più di un semplice arredo nella scena del crimine.
Conosciamo più da vicino il virus e le patologie che provoca, lo sappiamo curare o arginare in modo più efficace anche se non possediamo ancora un antidoto. Inoltre, secondo aspetto, la popolazione ha avuto il tempo di acquisire la cultura necessaria per difendersi, dall’igiene ai dispositivi di protezione passando per il necessario distanziamento a cui speriamo di non assuefarci. L’estate (terzo punto) ci ha anche concesso una sospensione del contagio massivo e la possibilità di pianificare — nei limiti del possibile — una strategia per il lungo inverno che ci attende e che non è ancora cominciato. Il peggio deve arrivare, insomma. Infine (quarto punto) la dialettica Stato-Regioni (e Province autonome) si pensava avesse affinato un metodo per evitare il centralismo o l’anarchia delle decisioni. Legato soprattutto alla demografia come punto cruciale dell’espansione del virus e la differenza come fattore di diversificazione delle misure. La difformità di Trento è stata invece sanzionata ieri dall’impugnativa (e dall’esclusione delle categorie aperte dal decreto ristoro) del governo, mentre Bolzano sembra avviata ad un patteggiamento.
Nonostante questo differenziale, la seconda ondata è proceduta con il suo andamento esponenziale. Non è semplice, lo sottolineiamo. Però dell’idea di rivedere i tempi della città, del lavoro, della scuola riorganizzando le nostre quotidianità in un’architettura che guardasse al futuro è rimasto ben poco. Suggestioni per lo più e i titoli dei media di luglio e agosto. Forse il sistema economico non possiede la flessibilità necessaria o il sistema scolastico non è strutturabile in una forma temporale differente dall’ingresso alle 8 (ossia scaglionamenti per non saturare la mobilità pubblica). O il ricorso ad uno smart working organizzato e anticipato non era prevedibile, inghiottito dalla grande illusione estiva. O le questioni contrattuali e sindacali sono invalicabili. Sicché ora ci ritroviamo nel punto ipotizzato: i trasporti pubblici debordano di studenti, lavoratori, utenti vari senza avere la possibilità di intervenire e sono uno dei principali veicoli di infezione. Perché i tempi delle città sono gli stessi di prima. Perché le reti del commercio e della logistica sono quelle ormai logore che conosciamo. Perché l’online è uno spazio di profitto senza restituzione. Perché la tracciabilità del virus rimane bassa o insufficiente, come la disponibilità dei tamponi. E dunque chiudiamo.
Le Province autonome di Bolzano e Trento hanno ritenuto di utilizzare gli strumenti dell’Autonomia per ritagliarsi degli spazi di azione e di adattamento in una realtà sanitaria non rassicurante. Ma oltre a tamponare le falle economiche che si aprivano, si è scelto, per impossibilità o complessità, di non spingersi oltre, di non toccare gli equilibri organizzativi. Ma la sfida, forse era lì, provare ad impostare un altro modello. Anche le elezioni comunali, che promettevano il quasi ipnotico monotema del virus e di come riconfigurare la vita nelle città e nelle valli, non hanno aggiunto in verità nulla al dibattito.
L’incertezza è diventata una compagna di vita e alimenta la protesta. Cerchiamo pure gli infiltrati, gridiamo che è la camorra, ma nei focolai che si accendono tanti sono semplicemente esasperati perché le disuguaglianze li stanno consumando, il lavoro se n’è andato e le liturgie dei decisori (liberali contro intransigenti per una manciata di consensi) non aiutano a trovare vie d’uscita. Stiamo transitando dalle fasi della resistenza (primo lockdown) e della depressione (la ripresa dei contagi autunnali) a quella dell’isteria che avrà caratteristiche irrazionali e collettive.
Tutte queste asimmetrie, che sembrano essere il dato crescente della società, avrebbero bisogno paradossalmente di vicinanze più che di lontananze, di condivisioni più che di divisioni, di immaginazione più che di difesa di uno status quo destinato a soccombere. È il compito della politica, colmare i vuoti anche quando questi fisicamente si propongono di prendere il sopravvento.