LA GESTIONE IN DEROGA DEL VIRUS
La premessa d’obbligo è che la miglior tutela dell’autonomia consiste nell’esercitarla con una ragionevole e ben ponderata assunzione del rischio di una successiva invalidazione da parte di chi ne abbia la legittima autorità. È un imperativo etico che, a mio giudizio, vale per tutti, individui (anche i minorenni, che devono poter crescere anche grazie ai propri errori), associazioni private e istituzioni, Regioni ordinarie e speciali.
Bene hanno dunque fatto, in linea di principio, le due Province autonome ad assumere il rischio di una impugnazione da parte del governo per la gestione della pandemia nel rispettivo territorio. Tuttavia, a base dell’assunzione del rischio, occorre che la valutazione dei margini di autonomia praticabili sia davvero ragionevole e ben ponderata. Il che non sembra essere stato in relazione alle due ordinanze che hanno introdotto — ciascuna per proprio conto e con norme proprie differenziate l’una dall’altra — un assetto derogatorio rispetto alla disciplina nazionale disposta dal dpcm del 24 ottobre. Il rischio, dunque, c’era e in buona misura l’esito si sarebbe potuto anticipare. In realtà le ordinanze dei due presidenti provinciali hanno presentato una struttura molto diversa. L’ordinanza del Landeshauptmann contiene 47 prescrizioni puntuali esposte con stile tacitiano in dieci pagine bilingui. Non si dà alcuna motivazione delle scelte derogatorie introdotte.
Partendo dalla citazione dello Statuto e delle singole competenze di settore da esso previste, si indica fra le fonti la legge provinciale n. 4 del 2020 e ci si limita a prendere atto dell’evolversi della situazione epidemiologica, della crescita dei casi di Covid e della conseguente necessità di «introdurre ulteriori misure maggiormente restrittive, limitate temporalmente». Si registra che «a livello nazionale tali misure ulteriormente restrittive sono state adottate con il dpcm del 24 ottobre 2020». Dopodiché inizia l’elencazione delle misure autonomamente introdotte nell’ordinamento, senza alcun riferimento alla loro natura derogatoria rispetto alla disciplina nazionale e tacendo, dunque, sul fatto che alcune delle misure sono in realtà espansive e non restrittive (come l’orario di apertura di bar e ristoranti). L’ordinanza di Fugatti, invece, segue un’impostazione diversa: si richiama a una ventina di fonti normative e si citano brani di disposizioni della normativa dello Stato a presunto sostegno dell’ammissibilità di margini di deroga. Così, ad esempio, si fa riferimento al previsto rapporto di compatibilità delle misure nazionali con gli Statuti speciali e le norme di attuazione, si menzionano i principi di proporzionalità e di adeguatezza per l’adozione di una disciplina restrittiva in campo economico, sociale e produttivo i quali implicano «una valutazione specifica del contesto territoriale in cui le misure di contenimento si applicano, potendo ricondurre a una rimodulazione delle stesse al fine di renderle più efficaci nel contrasto al Covid». Si ricorda anche la necessità «di adottare misure che contemperino l’esigenza di tutela della salute pubblica con gli interessi socio-economici rilevanti sul territorio provinciale, in un ragionevole bilanciamento di interessi». Da ultimo si presenta l’ordinanza come un atto posto a «chiarimento e integrazione» del dpcm del 24 ottobre, e dunque come un atto collaborativo e non contrapposto a quello dello Stato. Per quanto concerne, in particolare, l’estensione dell’orario di apertura di bar e ristoranti, l’ordinanza trentina qualifica la deroga ai limiti nazionali come una «integrazione» del dpcm del quale si ostenta di far salve altre prescrizioni, quale il numero massimo delle persone al tavolo. Nessuna pretesa copertura nazionale viene addotta invece quanto alla sospensione domenicale delle attività commerciali, salvo precisare genericamente che essa è disposta «al fine di non alimentare occasioni di assembramento». Al di là delle differenze di scelte politiche fra le due ordinanze provinciali in ordine a taluni contenuti (ad esempio, la differenza sull’apertura di cinema e teatri) rimane il duplice problema di valutare la reazione del governo di fronte a ciascuna, per quanto ciò risulti praticabile alla luce delle notizie di stampa al momento disponibili.
Sul fronte della legittimità della deroga, di per sé, le due ordinanze — in relazione alle difformità rispetto alla disciplina dello Stato — sono da valutare come in palese violazione del dpcm del 24 ottobre e del criterio generale secondo il quale sono ammissibili solo deroghe regionali più restrittive. Particolarmente vulnerabile è la chiusura festiva e domenicale di tutti gli esercizi commerciali in Trentino (in Alto Adige si è prevista l’apertura dei supermercati nei centri commerciali che pure, come prescritto dal dpcm, rimangono chiusi). Per quanto concerne l’intervento da parte del governo, occorre dire che, tranne per quei casi in cui la visibilità della violazione costringa a qualificare l’impugnazione come atto dovuto, il ricorso giurisdizionale contiene sempre in sé elementi di discrezionalità che inducono a riflessioni molto pragmatiche: fra queste, il grado del rischio di emulazione da parte di altre Regioni, l’incidenza delle deroghe locali sulle dinamiche del fenomeno nazionale da disciplinare (nel nostro caso, l’efficacia della gestione della pandemia), il rapporto costi-benefici del ricorso anche in vista della creazione di un precedente che sarebbe difficile non seguire in futuro. Non mancano i casi (anche recenti) nei quali l’aspettativa di un ricorso è rimasta disattesa. Ciò vale per la legge sudtirolese n. 4 del 2020 («Misure di contenimento della diffusione del virus Sars-Cov-2 nella fase di ripresa delle attività» con esplicito conferimento della potestà di emanare ordinanze attuative) rispetto alla quale era curiosamente mancato un ricorso governativo, probabilmente sia perché si era agli inizi di maggio e ci si aspettava un’uscita dalla fase più acuta, sia perché, trattandosi di una legge, il ricorso sarebbe dovuto essere per illegittimità di fronte alla Corte costituzionale (con la garanzia di applicabilità della legge eccepita per un periodo di sei mesi). Anche oggi si dovrebbe passare dal contrasto dell’ordinanza di Bolzano prima di fronte al Tar e poi al contenzioso di costituzionalità. Rispetto a tali ragionamenti, la soluzione più efficiente sarebbe una revoca, una modifica o una sostituzione delle due ordinanze, al fine di anticipare «volontariamente» l’esito dell’intervento giurisdizionale. Tale scelta sarebbe preferibile anche perché la permanenza delle deroghe comprometterebbe la disponibilità dei ristori alle imprese locali. La concertazione con le categorie, alla luce di quest’ultima possibilità, consentirebbe anche di salvare la faccia e non subire una condanna giudiziaria. In conclusione, la sottoposizione delle autonomie speciali agli stessi limiti previsti per le Regioni ordinarie, anche alla luce di precise competenze statutarie, appare in contrasto con la stessa ratio posta a fondamento della specialità. La revisione dello Statuto (che tarda ormai almeno dal 2001) e l’adozione di norme di attuazione adatte all’attuale maturazione della specialità potrebbero risistemare tale assetto.