LA «FESTA» E IL SENSO DELLA FINE
Da un bel po’ di tempo l’avevamo allontanata con successo. Addirittura la sua «festa», il 2 novembre, era stata soverchiata, quasi espropriata dalle baldorie di Halloween, con il loro macabro divertente e commerciale. Stiamo parlando della morte e di tutti i suoi annessi e connessi. Che, come si diceva, avevamo respinto sempre più lontano. In tutti i sensi. Ad esempio – e semplicemente – vivendo sempre di più: solo nell’ultimo decennio la speranza di vita ha guadagnato ben due anni e mezzo.
Per cui la vecchiaia non solo si è allungata, ma è diventata attiva, giovanile, performante. Era divenuta perfino «amortale», come è stata definita, mentre non mancavano quelli che pensavano che la vita centenaria fosse ormai un traguardo prossimo per tutti o quasi. D’altronde la morte si affievoliva anche nella sua dimensione escatologica dell’Aldilà, come dicono le indagini di sociologia religiosa su quanti – sempre meno - credono in un’altra vita e nella resurrezione.
La pandemia rovescia tutto e fa rientrare la morte, il senso della fine o perlomeno della precarietà nelle nostre dimensioni esistenziali. La sua compagnia, spiacevolmente, si fa più prossima, più invadente. L’avevamo allontanata e pensavamo soprattutto che questo processo di allontanamento fosse non solo irreversibile, ma continuasse indefinitamente.
Un mondo appunto «amortale», forse addirittura perfino immortale; perché non sperare nelle mirabolanti future tecnologie e nella scienza? Invece la pandemia ed il suo carico (ora ancora crescente) di morti ci costringe a prendere atto di due cose. La prima è che la longevità non era un destino benigno e sicuro, ma solo una conquista provvisoria. Molto provvisoria: talmente provvisoria da essere reversibile. Così, improvvisamente e senza previsione alcuna, scopriamo che la morte non era così lontana come si pensava (e si sperava), che i guadagni di anni vita potevano anche esserci tolti, che la longevità stessa poteva ridursi. E scopriamo anche che la scienza medica ed il sistema sanitario non mantengono più la promessa faustiana dell’addomesticamento della morte. La seconda è che l’invecchiamento «vincente», così vitalistico, longevo e giovanile mostra oggi il suo volto nascosto. Che forse volevamo nascondere e nasconderci. Il volto spaventoso della fragilità. Quella fragilità che ha fatto sì che due terzi dei decessi da coronavirus siano nella fascia dei settantenni e degli ottantenni. Proprio quelli che dovevano essere – fino a qualche mese fa – i testimoni indiscussi e di successo dell’allontanamento della morte. Ma in realtà fragili non sono solo gli anziani o i colpiti dal virus, ma una società – la nostra – incapace o non più abituata ad abitare il silenzio, il vuoto, l’assenza. Dei propri cari, ma anche di sé, inevitabilmente.