Corriere del Trentino

IL POSTO CALDO PER I MORTI, UNA FARINATA PER I FIGLI E L’ECO DI HALLOWEEN

- Brunamaria Dal Lago Veneri © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

P er il calendario cristiano questi primi giorni di novembre sono dedicati alle due feste dei Santi e dei Morti. Queste feste hanno preso il posto di una antica celebrazio­ne tipica delle popolazion­i celtiche che un tempo abitavano le terre che si estendevan­o dall’Irlanda alla Spagna, dalla Francia all’Italia settentrio­nale, dalla Pannonia all’Asia Minore. Per queste genti il primo di novembre era considerat­o come lo spartiacqu­e fra un anno agricolo e l’altro. Un tempo di passaggio, una specie di inizio di anno nuovo, un Capodanno. Questo periodo che andava dal 31 ottobre all’11 di novembre, San Martino, prendeva il nome di Samhuinn, ed era preceduto da una notte chiamata Notte delle Calende d’Inverno nella quale si diceva che i morti entravano in comunicazi­one con i vivi in un generale rimescolam­ento cosmico.

Per questo «ritorno» dei morti sulla terra si intrecciav­ano molti riti, alcuni propiziato­ri, altri nati per esorcizzar­e la paura della morte. E mai, come in questo tempo di terrore, la morte, la nostra e quella degli altri, ci è presente.

In questi giorni di freddo anche nell’anima i Celti «fiorivano» i cimiteri per alludere all’aldilà come a un paradiso, luogo dell’eterna primavera Durante la notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre i Celti trascorrev­ano la notte bevendo e cantando in compagnia dei morti. Un’eco sbiadita e contraffat­ta di quelle notti si trova oggi nella notte di Halloween, molto in uso in Irlanda e da lì portata in America. Durante questa notte i ragazzi si mascherano da scheletri e da fantasmi mimando il ritorno dei trapassati sulla terra e girano di casa in casa chiedendo piccoli doni e minacciand­o, se non li ottengono, di giocare qualche brutto scherzo. Usanza che è «ritornata» in Europa, anche se ora è da molti stigmatizz­ata come una festa meramente commercial­e.

Per la tradizione locale la notte fra il giorno dei Santi e il giorno dei Morti si dice che «i cari morti» ritornino nelle loro case. Per questo si lascia loro un posto caldo vicino al fuoco, un letto pronto per il loro riposo e, un piatto di mosa (farinata) appena cucinata per consolarli dell’esilio nel regno delle tenebre. Sulla mosa si sparge un po’ di semi di papavero, il seme dell’oblio e un po’ di miele, l’ambrosia della memoria. Nel giorno dei Santi i padrini e le madrine rinnovano il loro «patto» con i figliocci, regalando una focaccia la cui forma varia di valle in valle: può essere una gallina (per le femmine) o un coniglio (per i maschi), oppure un cavallo o un pane dolce a forma di corona.

È il segno della continuità, figli e figliocci sono il nostro ingresso nella immortalit­à, e segno della continuità, è onorare e, in qualche modo far rivivere i propri «cari morti» che sono le radici sulle quali cresce l’albero della vita. Ancora un po’ di usanze e tradizioni: a Trieste si usa regalare ai figliocci un cartoccino di «fave dei morti», piccoli dolci di mandorle colorati di bianco, di rosa o di marrone, in Sicilia si donano dei biscotti a forma di ossa da morti, come indica il nome. In Grecia, per i morti si offre un cibo rituale fatto di grano ammorbidit­o nel latte, di mandorle, uva sultanina, miele e fave.

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