Rella, la finestra, le parole: un libro sulla narrazione
Il libro sulla narrazione del filosofo Franco Rella: «La parola organizza i fatti, è un carico d’anima»
Sin dagli inizi l’uomo si è spiegato il mondo con la narrazione. Da sempre la parola rappresenta lo strumento potente attraverso cui egli prova a dare forma persino a ciò che rimane avvolto dal mistero. Narrare. Tentativi di inventario (Jaca Book, 20 euro, pp. 184), il nuovo libro di Franco Rella, conduce negli infiniti e al contempo frammentari spazi delle storie. Già nell’incipit ci presenta un personaggio che è «come sempre, alla finestra», e interroga il riflesso del suo volto nel vetro. «C’e un mondo di fuori e un mondo di dentro» e quel personaggio è consapevole della transitorietà del tutto, anche di se stesso. Pensa allora che dovrebbe iniziare un inventario, catalogare le cose che sono intorno a lui e quelle che riesce a scorgere da quella finestra. Editorialista del Corriere del Trentino, filosofo e saggista, Rella ha insegnato Estetica allo Iuav di Venezia. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo: Il segreto di Manet (2017), Le soglie dell’ombra (2018), Scrivere. Autoritratto con figure (2018), Immagini e testimonianze dall’esilio (2019), Territori dell’umano (2019).
Professor Rella, il libro inizia con l’immagine di una finestra. Il richiamo al lockdown è immediato.
«La finestra indica la presenza di un mondo di fuori e un mondo di dentro e il protagonista vi si specchia. In realtà tale vetro è trasparenza e allo stesso tempo chiusura. Oltretutto dalla finestra si vedono paesaggi diversi, nel senso che il soggetto non ha deciso neppure dov’è, come se non potesse saperlo, come se ciò dipendesse da una decisione non sua». Oltre a questo personaggio, intervengono quelli che egli insegue nella sua mente.
«Sono i personaggi che lui a sua volta immagina e cerca di muovere, nell’illusione o nella speranza che l’intreccio narrativo riesca a tenere nelle sue maglie la complessità del reale. Questi plurimi tentativi di costruire l’intreccio indicano che una storia che possa catturare tutto ciò che è interiore ed esteriore si rivela praticamente irraggiungibile».
Nel libro però la parola, come l’arte in genere, è vista come possibilità di organizzare i fatti e dare un senso al mondo.
«Condivido il pensiero di Pasolini in Petrolio, in cui afferma che nel momento in cui si organizza la realtà in una narrazione, si può esercitare un potere, anche se non cruento, legato alla capacita delle parole di dare una leggibilità del mondo. L’idea è che le parole abbiano “un carico di anima” che possa legittimare l’insensata attività dello scrivere. Un indicibile assoluto non esiste». L’Io però rimane spesso insondabile.
«Per quanto si indaghi sull’Io, al fondo di tutte le risposte possibili rimane un residuo che sfugge, svanisce in una sfera che va oltre il linguaggio: quell’enigma che è il singolo uomo. L’Io ha una profondità abissale, Eraclito diceva che non è possibile cogliere i confini dell’anima. L’illimitato dell’anima è anche l’illimitato dell’Io, non a caso Freud osserva che l’analisi è interminabile». Come in altri suoi lavori, si sofferma sulla difficoltà del narrare. Perché parla di «tentativi» d’inventario?
«Considero l’inventario “il grado zero” della narrazione. Quando enumero le diverse cose, non le ho ancora strutturate in un racconto. È una narrazione che non è ancora nata, che si spinge verso la forma. Parlo di “tentativi” perché cerco di sottolineare che come è difficile che una storia decolli, lo è anche fornire un inventario completo. Per questo il personaggio sostiene la trama narrativa con delle continue riflessioni sul mondo».
«Ma Auschwitz è stato ben più dell’attuale pandemia virale», lei scrive.
«Auschwitz e virus rappresentano due dimensioni terribili del male: Auschwitz è un male provocato dall’uomo sull’uomo, volontariamente. Un male nutrito di malvagità, mentre il virus è un male assoluto ma non è malvagio di per sé, perché è cieco, non ha intenzione».
Nelle sue riflessioni attorno ai problemi etici connessi al coronavirus, ritorna più volte sulla figura del «vecchio».
«Da più parti ormai si è detto che tra un giovane e un vecchio è doveroso curare il giovane, scegliere una vita potenzialmente proiettata al futuro. Ciò pone un principio che travolge i valori su cui si fonda la nostra civiltà. Il welfare è la protezione del debole, di chi non ha capacità di vita autonoma. Ora siamo di fronte a una specie di Rupe Tarpea che nega il valore assoluto della vita e sceglie tra una vita e l’altra. Già porre il problema, può legarsi con intenzioni in qualche modo inumane, perché l’umano non è negoziabile. Non ce n’è uno maggiore o uno minore».