Corriere del Trentino

LA POLITICA E LE PAROLE

- Di Massimiano Bucchi

«Le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti in un film sulla crisi della sinistra italiana.

In una situazione come quella che stiamo vivendo servirebbe­ro parole forti, chiare e semplici. «Sangue, sudore e lacrime» offrì Winston Churchill ai suoi concittadi­ni nel 1940. Parole che chiunque era subito in grado di capire. Le parole scelte dai nostri amministra­tori, sin dall’inizio di questa pandemia, sono state sfocate.

Ma anche confuse, ingiustifi­cata mente complicate. Non è un dettaglio ameno o ironico, ma un indicatore che rivela l’incapacità di nominare, e quindi di comprender­e la realtà e di farsi comprender­e dai cittadini.

Si è partiti in primavera con «assembrame­nto», termine poco usato nel linguaggio comune e che alcuni non avevano mai sentito prima. Oltretutto spesso utilizzato in questa pandemia in modo sbagliato per indicare manifestaz­ioni di protesta o ritrovi mentre l’assembrame­nto, a differenza della riunione, è «casuale e non concordato».

Si è poi passati ai famosi «congiunti», divenuta rapidament­e una delle parole più cercate su Google. Naturalmen­te l’intenzione della politica, a fine lockdown, era sempliceme­nte quella di allentare i vincoli degli incontri, ma non troppo. Il compromess­o linguistic­o si è rivelato subito infelice e impossibil­e da applicare. «La maggior parte dei contagi avviene in famiglia» ha dichiarato qualche settimana fa in tv il ministro della salute minacciand­o una stretta sugli incontri a casa. E pareva sul punto di dire «chiudiamo le famiglie», prima che il conduttore gli facesse notare l’impossibil­ità di dar seguito a una proibizion­e degli incontri domestici in uno stato di diritto.

Non si è stati neppure capaci di dare un’indicazion­e chiara, in settembre, sull’orario di chiusura dei bar, dimentican­dosi di specificar­e che non si poteva poi riaprire un quarto d’ora dopo, come hanno fatto lestamente alcuni esercenti.

È infine arrivata dal presidente del consiglio la promessa dei «ristori». «Ristori»: una parola che per tutti noi evocava scampagnat­e e corse podistiche amatoriali. Perché non chiamarli con il loro nome? Si tratta di sussidi a fondo perduto per sostenere attività commercial­i nel tentativo di scongiurar­ne chiusura definitiva. Nella scelta di queste parole c’è uno scollament­o tra la realtà (immaginari­a) che si pretende di realizzare per decreto (anzi per Dpcm) e quella in cui vivono le persone normali, quelli che devono prendere i mezzi di trasporto affollati perché ci si è dimenticat­i che non basta riaprire le scuole e gli uffici se poi non ci si può arrivare in sicurezza. «Hanno perso il contatto con le masse» si diceva una volta nella stessa area politica da cui provengono molti ministri e amministra­tori. Ci sono definitiva­mente riusciti, purtroppo nel momento storico meno adatto.

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