Ghezzi, lo chef che vola e scala le vette
Il titolare di «Senso» tra passioni e ricerca dei prodotti: «I canederli? Smalzadi»
Alfio Ghezzi non è solo uno degli chef trentini più popolari: è anche un appassionato di montagna. E proprio dall’alpinismo — ma non solo: anche dal parapendio, che Ghezzi pratica — lo chef, titolare del bistrot «Senso» al Mart di Rovereto, trae gli spunti per la ricerca di sapori e prodotti del territorio. In una evoluzione che coinvolge anche i piatti tipici di una volta. Come i canederli, un tempo piatto di recupero. «Mi piacciono smalzadi» confessa Ghezzi.
TRENTO Esiste una cucina di montagna? Che caratteristiche ha, quali sono le variabili che la definiscono? Alfio Ghezzi non è solo uno chef popolare e apprezzato, ma anche un grande appassionato di sport in quota. Ci ha aiutato così a comprendere un argomento che ha molto seguito. «Credo sia il microclima l’elemento che definisce un determinato tipo di cucina. Se ci limitiamo al Trentino per esempio, la cucina del Garda è differente da quella delle Giudicarie. Il broccolo di Torbole non avrebbe il sapore dolce che ha se crescesse altrove. Allo stesso tempo si può dire che c’è una cucina di montagna molto simile in tutto l’arco alpino, differente da quella che si riscontra in valle o a mezza montagna. Me ne sono reso conto molto bene qualche anno fa, quando ho attraversato le Alpi a piedi e in parapendio. Ho trascorso da solo tre settimane bellissime: risalivo i monti camminando, volavo, dormivo spesso in malga. Lì emergeva in maniera davvero evidente come luoghi che non sono direttamente collegati tra loro abbiano gli stessi piatti: perché a certe quote crescono le stesse piante o ci sono i pascoli. È stato un viaggio molto istruttivo».
Alfio Ghezzi al momento gestisce il bistrot al Mart di Rovereto. Si chiama Senso e lo impegna al 100%, ma la passione per la montagna non si spegne nella vita di fondovalle, è radicata nelle origini. «Sono nato in montagna e la mia famiglia ha sempre praticato l’alpinismo, mio fratello Giovanni è guida alpina. Lui è più giovane e sono stato io a iniziarlo all’alpinismo e all’arrampicata. Abbiamo scalato moltissimo insieme: in valle del Sarca come in Adamello e in Brenta. Abbiamo fatto le classiche sul Crozzon e sul Campanil Basso».
Alfio non ha abbandonato la montagna e il legame con la terra natale è sempre strettissimo, anche in relazione alla professione. «In val d’Ambiez ci sono andato a prendere la carne più che a scalare, da Luca Margonari. Alleva gli yak: è un bovino di qualità, non vive nella stalla. Ha una muscolatura sviluppata, mangia al pascolo. Ha un sapore vagamente di pecora, non si abbatte subito quando scende dall’alpeggio ma dopo un paio di mesi, quando ha perso un po’ di selvatico». Ghezzi esplora il nostro territorio alla ricerca di quanto si possa sposare meglio con la sua cucina, coniugando relazioni umane e di prodotto. Propone una cucina fortemente legata alla tradizione, dove l’innovazione è legata soprattutto all’uso di ingredienti derivati da animali e vegetali che si sposano con l’ambiente nostrano. «Al momento per esempio stiamo lavorando con Gunther del rifugio Friedrich August, al passo Sella: alleva gli highlander, bovini di montagna di origine irlandese». La ricerca di Ghezzi è certosina, ma senza puntiglio: la scelta di determinati piatti è conseguenza di una scelta che insiste su una proposta legata al territorio. «Attualmente sono a Rovereto, per cui molti prodotti rappresentano una cucina che si spinge al massimo fino alla mezza montagna. A breve apriremo a Limone e lì i sapori si sposeranno maggiormente con un clima mediterraneo. Mi piace lavorare quanto più possibile in prossimità con i produttori».
Si dice spesso che la cucina di montagna — e anche quella trentina — sia povera. Ma è davvero ancora così? Allevamento industriale e coltivazioni intensive hanno abbattuto il costo di determinati prodotti, altri sono diventati introvabili. «La cucina di un secolo fa era classista — spiega Ghezzi— perché determinati piatti li potevano mangiare solo i ricchi. Oggi invece anche nei ristoranti più importanti trovi piatti poveri, come la trippa. La sensibilità si è spostata sulla differenza tra buono e cattivo, non tra più o meno ricercato. Prendiamo i canederli: spesso si facevano per riciclare gli avanzi. Ma oggi li puoi trovare anche da noi, intesi non più come un piatto di recupero: per esempio sappiamo che il pane tagliato a cubetti molto regolari e l’impasto che riposa il tempo dovuto sono elementi che fanno la differenza». Sull’eterna diatriba tra proporli asciutti o in brodo, Ghezzi ci dà il suo gusto personale. «A me piacciono smalzadi, con un po’ di sugo dell’arrosto».
Dedicarsi alla ristorazione oggi permette anche di incidere in maniera sostanziale in un modello di consumi proposto, in una visione della nostra società. «Pensiamo ai bovini. Di un animale che pesa una tonnellata ormai si utilizzano solo due tagli, per circa 50 chili di carne. Non si usa quasi più il biancostato, la punta di petto, i muscoli. Questo è il problema, e poi l’allevamento intensivo è un disastro. Per fare crescere di un chilo il peso vivo di un manzo bisogna dargli dai 7 ai 10 chili di mangime, e per ottenere un chilo di carne ce ne vuole il doppio. Anche per questo io ora compro animali interi, da pascolo. Ci sono altre cose che non tollero più, come consumare frutta e verdura fuori stagione: la trovo una mancanza di coerenza insopportabile. Pensiamo alla verdura invernale, non c’è solo il cavolfiore. Potenzialmente abbiamo una biodiversità incredibile, che dobbiamo imparare a coltivare e diffondere». Ma in conclusione, per Ghezzi è più difficile soddisfare i turisti o i clienti locali? «I trentini sono molto attenti ed equilibrati. Il turista si lascia affascinare dalle atmosfere, dal diverso, il cliente trentino invece capisce subito se è una cucina di sostanza».
La visione Consumare frutta e verdura fuori stagione è una mancanza di coerenza insopportabile. Abbiamo una biodiversità incredibile che dobbiamo coltivare