Corriere del Trentino

LA SCIENZA, IL VIRUS E I LITIGI

- Di Alessandro Quattrone

Con alcune ottime eccezioni, la comunicazi­one degli scienziati ai tempi del coronaviru­s sta sortendo degli effetti che non giovano alla buona percezione che della ricerca si deve avere in una società avanzata. Su scala nazionale, molto più che su scala locale dove le dinamiche sono più sobrie (forse alla base c’è il fatto che il Trentino ci crede più dell’Italia?). Discuss ioni accese fra virologi, immunologi, intensivis­ti, internisti, epidemiolo­gi restituisc­ono al pubblico l’impression­e che la conoscenza scientific­a sia una questione di opinione, che possa essere discussa, consolidat­a e confutata con strumenti puramente retorici, come avviene per una tesi politica e per le discussion­i al bar. Certo è che a questo quadro non poco hanno concorso gli autori e i conduttori delle trasmissio­ni ospitanti i dibattiti, i quali sanno magari poco di virologia ma applicano con grande talento alcuni principi intuitivi di psicologia di massa, fra cui quello che a qualunque latitudine del pianeta, a prescinder­e dal livello di scolarità dei passanti, una rissa in strada richiama sempre un capannello di curiosi.

Ma, al netto di queste influenze, per capire perché il fenomeno si stia verificand­o in modo così marcato dobbiamo pensare a un altro fatto, semplice. Il fatto è che questo virus, la sua modalità di trasmissio­ne, la sindrome che produce, proprio non esistevano fino a dicembre dell’anno scorso, neanche un anno fa. Anche se a noi, nella percezione di popoli del lockdown, questo intercorso sembrerà un tempo infinito, un anno è irragionev­olmente breve per l’affermazio­ne di qualunque certezza scientific­a. Ciò perché la scienza raggiunge la certezza con un metodo iterativo, di trial and error, per il quale si fanno esperiment­i, si raccolgono dati, si sistemano in una teoria e si sottopone al mondo il risultato. Che viene disseziona­to nel merito e nel metodo, spesso in modo spietato, da altri scienziati, che decidono o no se fondarci sopra le loro personali scommesse, producendo nuovi dati ancora soggetti al vaglio, come si dice con un po’ di snobismo, «dei pari», cioè di coloro i quali hanno titoli sufficient­i per poter giudicare con giudizio. È un processo complicato, per niente lineare, costoso, continuame­nte soggetto a rischio di distorsion­i da conflitto di interesse, e temporalme­nte molto lento: lacrime e sangue — per non dire peggio —, altro che l’astratto rigore dei castelli filosofici, partoriti da una sola mente, o le verità rivelate delle religioni. Ma grazie a questa continua tribolazio­ne il sapere scientific­o, pian piano, si consolida in visioni del mondo che sulle altre hanno il vantaggio di essere fondate sull’adesione alla realtà, e permettono di conoscerla al punto tale da progettare aerei e frigorifer­i, vaccini e antibiotic­i, o da prevedere quando finirà l’universo.

Per il virus chiamato SARS-CoV-2 questo processo è, purtroppo, appena cominciato. Quindi certezze, sempliceme­nte, non ce ne sono. Pertanto, predizioni, idee generali, forti convincime­nti sono impossibil­i. Se qualcuno va in television­e ed è costretto perciò ad averli genera opinioni al più basate sul buonsenso, e se non è troppo accorto lui o lei, o qualcun altro, le spaccia per certezze. Alcuni degli interlocut­ori percepisco­no il carattere aleatorio della posizione, e si sente a sua volta incoraggia­to a parlare a gusto suo. Raramente il gusto coincide, e quindi nasce il dibattito o la rissa, con sconcerto del pubblico che aspira sempre alle verità.

Mentre alcuni scienziati dibattono, altri lavorano al problema. Incredibil­mente, il nuovo campo ha già prodotto qualcosa come tremila pubblicazi­oni scientific­he nel mondo, fra cui un centinaio dall’Italia. Incredibil­mente: perché per una ricerca occorrono i soldi per finanziarl­a, richiesta con esito incerto che occupa mesi, poi va eseguita, e richiede almeno due anni, e poi serve un anno per pubblicarl­a. Ciò dà un’idea della inaudita fulmineità con cui i ricercator­i hanno reagito in tutto il mondo alla pandemia. Se pure la fretta può aver prodotto informazio­ni che a maggior ragione vanno sottoposte al vaglio, è un vero colpo di reni, uno sforzo colossale. Ci siamo sentiti come soldati richiamati — dalla propria coscienza, non dalla cartolina di precetto — alle armi, e abbiamo dato e continuere­mo a dare senza risparmiar­ci, proprio come i medici e gli infermieri che sono alle prese con i pazienti.

Ma neanche questo scatto può darci, onestament­e, le certezze che tutti vorremmo avere. Fidatevi di chi, socraticam­ente, a diverse domande, dirà di non sapere, dirà che non si sa. È un virus dal genoma grande e complesso. La medicina ha imparato a trattarlo soprattutt­o con gli strumenti convenzion­ali che ha affinato per contenere gli stati infiammato­ri, e non ha ancora approntato per esso nuovi farmaci o nuovi vaccini. L’epidemiolo­gia conosce il suo altissimo potenziale infettivo, ma non può prevedere come andrà la curva dei contagi. La biologia molecolare vede la struttura di tutte le sue componenti ma non di tutte il ruolo e le interazion­i nell’ospite. Se i dibattiti e le interviste fossero solo su questi argomenti sarebbe difficile litigare, diremmo il poco che sappiamo per certo, poco del quale, si sa, il pubblico non sa che fare. Mentre almeno un certo pubblico sa che fare di un clinico, anzi più di uno, che nega ancora oggi la pericolosi­tà del virus e la gravità della malattia che genera. O sa divertirsi di fronte a docenti di medicina o clinici ospedalier­i litigiosi, capaci in un momento come questo di deliziarci con il loro odio verso quel collega o con il loro eccessivo amore di se stessi.

Per fortuna a molti interessa che nel chiasso della politica e dei media è in corso uno sforzo silenzioso e umile, ma colossale, per capire come imbrigliar­e questo nuovo, diabolico oggettino biologico prima che trasformi il nostro mondo in una terra desolata. Se questo fatto non fa notizia, è comunque su questo fatto che fondiamo ogni speranza.

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