IL FUTURO INCERTO DELLO SCI
Il tema della apertura degli impianti sciistici è in questi giorni di grande attualità. Mentre la Provincia professa ottimismo, gli operatori mi sembrano molto più realistici. Ci sono a mio avviso varie dimensioni del problema, che devono essere gestite separatamente e che invece si tende talvolta a mettere assieme.
La prima prospettiva riguarda l’immediato: aprire o non aprire? E come aprire? L’attenzione è apparentemente sui vincoli di sanificazione degli impianti e sul distanziamento. Da questa prospettiva, la mia sensazione è che taluni immaginino un inverno «normale», con autostrada intasata il giorno di Santo Stefano. In realtà abbiamo di fronte un inverno che, ad oggi, vede un numero di prenotazioni prossimo allo zero, incertezza assoluta. La mobilità internazionale non esiste, e non esisterà per parecchi mesi, quella nazionale è fortemente compromessa e comunque ampiamente incerta. Quindi lo scenario è di un possibile turismo di prossimità, sempreché si resti zona gialla, altrimenti anche quello viene meno. Una stazione sta in piedi con un numero minimo di sciatori ed un numero minimo di giorni di innevamento.
Questo secondo aspetto, messo in forte tensione dal cambiamento climatico, viene gestito con l’innevamento, che costa un sacco di soldi, ma la mancanza di sciatori non può essere risolta sostituendoli con sagome di cartone. Il guaio è che il trasporto a fune ha, di fatto, solo costi fissi: aperto o chiuso, con decine di milioni di euro che si devono mettere sul piatto per aprire.
Ho provato a fare un’analisi molto grezza, prendendo gli ultimi bilanci delle aziende di trasporto a fune ed immaginando una riduzione del 50% e del 75% dei ricavi. Lo scenario che ne emerge è pesante. In caso di riduzione dei ricavi del 50%, limitatamente al trasporto a fune, il settore potrebbe avere perdite per circa 75 milioni di euro e una distruzione di cassa (quindi liquidità che qualcuno deve immettere nel sistema) per potenziali 35-40 milioni. Ovviamente alcune società, anche di primaria importanza, sarebbero a rischio fallimento. Lo scenario più pessimistico, vedrebbe un’ulteriore esplosione delle perdite, che potrebbero arrivare a superare i 100 milioni di euro, con un fabbisogno finanziario che potrebbe arrivare a 90 milioni. Ha senso parlare di aperture con questi numeri? Potrebbe essere sostenibile aprire se gli alberghi fossero pieni, ma purtroppo le sensazioni ci dicono che avremo alberghi, e quindi seggiovie e funivie, vuoti.
Un possibile compromesso potrebbe essere di procedere con alcune aperture limitate, concentrando gli sforzi. Privilegiando quelle stazioni che hanno meno bisogno di innevamento programmato, e quindi meno costose, tagliando collegamenti costosi e inutili quest’anno. Se si decidesse di aprire, probabilmente sarebbe necessario un provvisorio downsizing della capacità produttiva, esattamente come hanno fatto le compagnie aeree: meno passeggeri, meno rotte, meno aerei e meno costi fissi.
Accanto alla situazione contingente, abbiamo la prospettiva futura. Come sarà l’offerta turistica invernale tra dieci anni? È chiaro che possiamo partire dal presupposto che va tutto bene, e quindi appena possibile rimettere in moto impianti e alberghi. Oppure possiamo cercare di capire come migliorare e fare in modo che il Trentino rimanga sempre un’area vocata al turismo. Soprattutto l’inverno, come accennato, ci troviamo di fronte ad una macchina non solo organizzativa, ma soprattutto produttiva complessa e rigida. Finora la tendenza è stata quella di gestire una progressiva perdita di competitività di stazioni minori, ponendole progressivamente sulle spalle del pubblico. È infatti potenzialmente impopolare chiudere una stazione: il perginese magari va a sciare in val di Fiemme, ma protesta se la Panarotta minaccia di chiudere. Idem con i trentini per il Bondone. È però evidente che l’offerta sciistica dovrà essere razionalizzata. Stazioni che già ora sono pesantemente assistite e non generano indotto in termini di presenze alberghiere, non hanno prospettiva. E allora usiamo questa crisi per gettare le premesse per un nuovo e diverso sviluppo, concentrando lo sci dove questo ha in qualche modo una sua sostenibilità, e individuando vocazioni diverse in quelle stazioni dove già da anni la prima nevicata arriva talvolta a febbraio, seguita magari da una notte di pioggia.
Andrebbe quindi definito un percorso di riconversione e di riqualificazione, in cui il turista che vuole sciare possa provare la gioia dello sci dove questo sarà possibile, ma con una crescente attenzione alla sostenibilità e dove le località che non sono (più) vocate allo sci, possano individuare comunque una loro vocazione turistica. Il punto è principalmente, ma non solo, il cambiamento climatico e, ancor di più, quanto bisogna investire per mantenere viva una stazione sciistica? Il progetto di Lorenzo Delladio per il Rolle riguardava una area dove la neve c’è, ma che ha oggettivamente poche prospettive di sostenibilità futura.
Purtroppo il dibattito è monopolizzato o dall’immediato, o dalla visione immaginifica del futuro. Non si considera la transizione, come se bastasse premere un pulsante per realizzarla, non si considera che già nella gestione della crisi bisogna adottare quelle decisioni che ci consentiranno di gettare le basi della ripresa futura.