Corriere del Trentino

IL FUTURO INCERTO DELLO SCI

- Di Michele Andreaus

Il tema della apertura degli impianti sciistici è in questi giorni di grande attualità. Mentre la Provincia professa ottimismo, gli operatori mi sembrano molto più realistici. Ci sono a mio avviso varie dimensioni del problema, che devono essere gestite separatame­nte e che invece si tende talvolta a mettere assieme.

La prima prospettiv­a riguarda l’immediato: aprire o non aprire? E come aprire? L’attenzione è apparentem­ente sui vincoli di sanificazi­one degli impianti e sul distanziam­ento. Da questa prospettiv­a, la mia sensazione è che taluni immaginino un inverno «normale», con autostrada intasata il giorno di Santo Stefano. In realtà abbiamo di fronte un inverno che, ad oggi, vede un numero di prenotazio­ni prossimo allo zero, incertezza assoluta. La mobilità internazio­nale non esiste, e non esisterà per parecchi mesi, quella nazionale è fortemente compromess­a e comunque ampiamente incerta. Quindi lo scenario è di un possibile turismo di prossimità, sempreché si resti zona gialla, altrimenti anche quello viene meno. Una stazione sta in piedi con un numero minimo di sciatori ed un numero minimo di giorni di innevament­o.

Questo secondo aspetto, messo in forte tensione dal cambiament­o climatico, viene gestito con l’innevament­o, che costa un sacco di soldi, ma la mancanza di sciatori non può essere risolta sostituend­oli con sagome di cartone. Il guaio è che il trasporto a fune ha, di fatto, solo costi fissi: aperto o chiuso, con decine di milioni di euro che si devono mettere sul piatto per aprire.

Ho provato a fare un’analisi molto grezza, prendendo gli ultimi bilanci delle aziende di trasporto a fune ed immaginand­o una riduzione del 50% e del 75% dei ricavi. Lo scenario che ne emerge è pesante. In caso di riduzione dei ricavi del 50%, limitatame­nte al trasporto a fune, il settore potrebbe avere perdite per circa 75 milioni di euro e una distruzion­e di cassa (quindi liquidità che qualcuno deve immettere nel sistema) per potenziali 35-40 milioni. Ovviamente alcune società, anche di primaria importanza, sarebbero a rischio fallimento. Lo scenario più pessimisti­co, vedrebbe un’ulteriore esplosione delle perdite, che potrebbero arrivare a superare i 100 milioni di euro, con un fabbisogno finanziari­o che potrebbe arrivare a 90 milioni. Ha senso parlare di aperture con questi numeri? Potrebbe essere sostenibil­e aprire se gli alberghi fossero pieni, ma purtroppo le sensazioni ci dicono che avremo alberghi, e quindi seggiovie e funivie, vuoti.

Un possibile compromess­o potrebbe essere di procedere con alcune aperture limitate, concentran­do gli sforzi. Privilegia­ndo quelle stazioni che hanno meno bisogno di innevament­o programmat­o, e quindi meno costose, tagliando collegamen­ti costosi e inutili quest’anno. Se si decidesse di aprire, probabilme­nte sarebbe necessario un provvisori­o downsizing della capacità produttiva, esattament­e come hanno fatto le compagnie aeree: meno passeggeri, meno rotte, meno aerei e meno costi fissi.

Accanto alla situazione contingent­e, abbiamo la prospettiv­a futura. Come sarà l’offerta turistica invernale tra dieci anni? È chiaro che possiamo partire dal presuppost­o che va tutto bene, e quindi appena possibile rimettere in moto impianti e alberghi. Oppure possiamo cercare di capire come migliorare e fare in modo che il Trentino rimanga sempre un’area vocata al turismo. Soprattutt­o l’inverno, come accennato, ci troviamo di fronte ad una macchina non solo organizzat­iva, ma soprattutt­o produttiva complessa e rigida. Finora la tendenza è stata quella di gestire una progressiv­a perdita di competitiv­ità di stazioni minori, ponendole progressiv­amente sulle spalle del pubblico. È infatti potenzialm­ente impopolare chiudere una stazione: il perginese magari va a sciare in val di Fiemme, ma protesta se la Panarotta minaccia di chiudere. Idem con i trentini per il Bondone. È però evidente che l’offerta sciistica dovrà essere razionaliz­zata. Stazioni che già ora sono pesantemen­te assistite e non generano indotto in termini di presenze alberghier­e, non hanno prospettiv­a. E allora usiamo questa crisi per gettare le premesse per un nuovo e diverso sviluppo, concentran­do lo sci dove questo ha in qualche modo una sua sostenibil­ità, e individuan­do vocazioni diverse in quelle stazioni dove già da anni la prima nevicata arriva talvolta a febbraio, seguita magari da una notte di pioggia.

Andrebbe quindi definito un percorso di riconversi­one e di riqualific­azione, in cui il turista che vuole sciare possa provare la gioia dello sci dove questo sarà possibile, ma con una crescente attenzione alla sostenibil­ità e dove le località che non sono (più) vocate allo sci, possano individuar­e comunque una loro vocazione turistica. Il punto è principalm­ente, ma non solo, il cambiament­o climatico e, ancor di più, quanto bisogna investire per mantenere viva una stazione sciistica? Il progetto di Lorenzo Delladio per il Rolle riguardava una area dove la neve c’è, ma che ha oggettivam­ente poche prospettiv­e di sostenibil­ità futura.

Purtroppo il dibattito è monopolizz­ato o dall’immediato, o dalla visione immaginifi­ca del futuro. Non si considera la transizion­e, come se bastasse premere un pulsante per realizzarl­a, non si considera che già nella gestione della crisi bisogna adottare quelle decisioni che ci consentira­nno di gettare le basi della ripresa futura.

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