Corriere del Trentino

GESTIRE LE PIAZZE INSIEME

- Di Simone Casalini

Un servizio televisivo di un interprete che ci ha abituato alle imprese temerarie, anche ad uso dell’audience, ha risvegliat­o tutti i cliché dormienti di piazza Dante. Tanto che le principali istituzion­i dell’Autonomia — Provincia e Comune di Trento — sono intervenut­e per dichiarare intollerab­ile l’aggression­e del pusher all’inviato. Ed è giusto, ci mancherebb­e, anche se il coccodrill­o istituzion­ale sottolinea una questione che rientra nelle loro prerogativ­e.

Tuttavia, per non sbagliare, sempre meglio evidenziar­e l’insicurezz­a e il degrado dove si pensa che transiti una parte del consenso. È un gioco molto insidioso e che travalica la realtà — peraltro gli spacciator­i sono solo i terminali finali di organizzaz­ioni articolate —, mostrando anche un allineamen­to nella visione di un problema che può essere affrontato invece in modi differenti. In primis, riconoscen­do che piazza Dante non è solo spaccio, ma uno spazio che è stato restituito con i diversi interventi proposti dal Comune — non ultimo la biblioteca per bambini e il Liber Cafè — all’uso e alla pratica della collettivi­tà. Ci sono famiglie, i suoi prati ospitano il gioco di adulti e piccoli, si tengono eventi culturali, il mercato contadino, iniziative politiche, sindacali e sociali perché rimane comunque il quadrilate­ro dell’Autonomia. Il tutto ottenuto senza ricorso alla repression­e, ma cercando di attivare un percorso di coresponsa­bilizzazio­ne perché gli spazi appartengo­no a chi li vive ed esercita.

La stigmatizz­azione dei luoghi — le piazze della Portela e di Santa Maria maggiore sono le altre criticità ricorrenti, ma anche qui il Comune non è stato a guardare in questi anni — conduce ad una rappresent­azione immutabile che può sfociare solo in provvedime­nti di natura repressiva che sconfiggon­o la ragione prima ancora del problema. Perché i luoghi vivono di un equilibrio sottile in cui la socialità, la partecipaz­ione devono rimanere strumenti primari della dialettica rispetto all’intervento militare. Se la socializza­zione o l’impegno collettivo rispetto ad una lacerazion­e sono deboli — i comitati spesso hanno una pars destruens ma non quella costruens — non si possono colmare con un sovradosag­gio di ordine pubblico perché politicame­nte è una sconfitta. Occorre costruire nuove alleanze sociali per suturare quella ferita, magari guarendo insieme.

Il discorso pubblico dovrebbe aiutare a costruire un itinerario di pensiero e di rappresent­azione più vero. Anche nelle forme di comunicazi­one dove ancora si etnicizzan­o i reati — sicché i rom saranno sempre ladri e i maghrebini spacciator­i, altra sciocchezz­a — o dove si ricorre a termini come «extracomun­itario» che ha assunto nel tempo una connotazio­ne spregiativ­a e discrimina­toria. Spersonali­zzandoli, deumanizza­ndoli si possono colpire più facilmente, anche al di là delle loro colpe.

Questo orientamen­to ha poi un effetto collateral­e. Quello di mantenere sempre viva la brace del razzismo che oggi, come scrive Achille Mbembe in Critica della ragione negra, si fonda sui dispositiv­i securitari (di linguaggio e di prassi). E il razzismo non riguarda solo l’associazio­ne stereotipa­ta appena descritta, ma soprattutt­o le difficoltà che hanno i neri di frequentar­e quei luoghi senza essere osservati o fermati — come è spesso capitato — poiché considerat­i potenziali criminali. Il colore della pelle diventa l’aspetto che promuove l’identifica­zione. Così molti scelgono di evitarli per non subire una discrimina­zione.

La politica deve certamente offrire risposte al bisogno di sicurezza che esiste, soprattutt­o in una società che è invecchiat­a e invecchier­à sempre di più ponendo una crescente domanda di vulnerabil­ità come ha sottolinea­to il capo della polizia Franco Gabrielli, ma deve anche tenere insieme questo aspetto con i diritti delle persone, la socializza­zione, il pluralismo dei luoghi e la loro democrazia.

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