GESTIRE LE PIAZZE INSIEME
Un servizio televisivo di un interprete che ci ha abituato alle imprese temerarie, anche ad uso dell’audience, ha risvegliato tutti i cliché dormienti di piazza Dante. Tanto che le principali istituzioni dell’Autonomia — Provincia e Comune di Trento — sono intervenute per dichiarare intollerabile l’aggressione del pusher all’inviato. Ed è giusto, ci mancherebbe, anche se il coccodrillo istituzionale sottolinea una questione che rientra nelle loro prerogative.
Tuttavia, per non sbagliare, sempre meglio evidenziare l’insicurezza e il degrado dove si pensa che transiti una parte del consenso. È un gioco molto insidioso e che travalica la realtà — peraltro gli spacciatori sono solo i terminali finali di organizzazioni articolate —, mostrando anche un allineamento nella visione di un problema che può essere affrontato invece in modi differenti. In primis, riconoscendo che piazza Dante non è solo spaccio, ma uno spazio che è stato restituito con i diversi interventi proposti dal Comune — non ultimo la biblioteca per bambini e il Liber Cafè — all’uso e alla pratica della collettività. Ci sono famiglie, i suoi prati ospitano il gioco di adulti e piccoli, si tengono eventi culturali, il mercato contadino, iniziative politiche, sindacali e sociali perché rimane comunque il quadrilatero dell’Autonomia. Il tutto ottenuto senza ricorso alla repressione, ma cercando di attivare un percorso di coresponsabilizzazione perché gli spazi appartengono a chi li vive ed esercita.
La stigmatizzazione dei luoghi — le piazze della Portela e di Santa Maria maggiore sono le altre criticità ricorrenti, ma anche qui il Comune non è stato a guardare in questi anni — conduce ad una rappresentazione immutabile che può sfociare solo in provvedimenti di natura repressiva che sconfiggono la ragione prima ancora del problema. Perché i luoghi vivono di un equilibrio sottile in cui la socialità, la partecipazione devono rimanere strumenti primari della dialettica rispetto all’intervento militare. Se la socializzazione o l’impegno collettivo rispetto ad una lacerazione sono deboli — i comitati spesso hanno una pars destruens ma non quella costruens — non si possono colmare con un sovradosaggio di ordine pubblico perché politicamente è una sconfitta. Occorre costruire nuove alleanze sociali per suturare quella ferita, magari guarendo insieme.
Il discorso pubblico dovrebbe aiutare a costruire un itinerario di pensiero e di rappresentazione più vero. Anche nelle forme di comunicazione dove ancora si etnicizzano i reati — sicché i rom saranno sempre ladri e i maghrebini spacciatori, altra sciocchezza — o dove si ricorre a termini come «extracomunitario» che ha assunto nel tempo una connotazione spregiativa e discriminatoria. Spersonalizzandoli, deumanizzandoli si possono colpire più facilmente, anche al di là delle loro colpe.
Questo orientamento ha poi un effetto collaterale. Quello di mantenere sempre viva la brace del razzismo che oggi, come scrive Achille Mbembe in Critica della ragione negra, si fonda sui dispositivi securitari (di linguaggio e di prassi). E il razzismo non riguarda solo l’associazione stereotipata appena descritta, ma soprattutto le difficoltà che hanno i neri di frequentare quei luoghi senza essere osservati o fermati — come è spesso capitato — poiché considerati potenziali criminali. Il colore della pelle diventa l’aspetto che promuove l’identificazione. Così molti scelgono di evitarli per non subire una discriminazione.
La politica deve certamente offrire risposte al bisogno di sicurezza che esiste, soprattutto in una società che è invecchiata e invecchierà sempre di più ponendo una crescente domanda di vulnerabilità come ha sottolineato il capo della polizia Franco Gabrielli, ma deve anche tenere insieme questo aspetto con i diritti delle persone, la socializzazione, il pluralismo dei luoghi e la loro democrazia.